La sfida tecnologica tra Cina e Stati Uniti continua a salire di livello e al centro rimangono le tecnologie emergenti come i semiconduttori. Il conflitto a distanza tra Pechino e Washington nell’ultimo anno ha subito un cambio di passo radicale ma, se fino a pochi mesi fa le misure più drastiche erano state prese dagli Stati Uniti, nelle ultime settimane sembra che anche la Cina si stia pian piano adattando alle nuove logiche della competizione in campo aperto.
Lunedì, infatti, Pechino ha annunciato l’introduzione dal primo agosto di nuove restrizioni all’export di due materiali critici, il gallio e il germanio. Il regolamento prevede che tutte le società cinesi che producono e commercializzano i due materiali (e i loro composti chimici derivati) dovranno chiedere un permesso al ministero del Commercio per esportare, o continuare a esportare, all’estero i propri prodotti. Per ricevere l’autorizzazione amministrativa le aziende dovranno comunicare alle autorità chi sono gli acquirenti stranieri e quali sono le applicazioni per cui i prodotti verranno usati. L’autorizzazione però sarà condizionata all’approvazione del Consiglio di Stato (l’equivalente cinese del Consiglio dei ministri), a riprova di quanto gli alti dirigenti di Pechino ritengano strategico il controllo diretto su un settore cruciale come quello dello sviluppo tecnologico.
Il mercato globale
Gallio e germanio sono due elementi con un mercato piuttosto modesto in termini di volumi: il mercato globale del gallio nel 2022 valeva solo 39 milioni di dollari, mentre quello del germanio 290 milioni. A dispetto dei volumi però, i due materiali sono elementi strategici per lo sviluppo delle tecnologie critiche, microchip in primis. Gallio e germanio, infatti, sono i materiali su cui si fonda la nuova generazione di semiconduttori non basati sul silicio, e che meglio si adattano ad applicazioni in tecnologie che richiedono alte prestazioni come le auto elettriche o le energie rinnovabili. Ma i due materiali hanno anche applicazioni nel campo delle telecomunicazioni e delle apparecchiature militari.
Materiali di nicchia quindi ma dall’alto valore strategico per lo sviluppo tecnologico e industriale, la cui produzione è tuttavia estremamente concentrata. Pechino, infatti, gode di un ampio predominio di mercato rispetto alla concorrenza, tale da rasentare il monopolio delle forniture globali: l’83% di tutto il germanio prodotto al mondo proviene dalla Cina, mentre per quanto riguarda il gallio la percentuale sale addirittura al 94%. È proprio questa centralità cinese nel mercato internazionale a rendere le nuove restrizioni all’export un’arma affilata.
Arma comunque a doppio taglio, perché la Cina per quanto predominante non è affatto l’unico attore nel gioco delle due materie prime. Sebbene marginali nel mercato globale rispetto a Pechino, anche Belgio, Germania e Giappone possiedono strutture produttive e competenze che potrebbero essere usate per espandere la produzione fuori dalla Cina di gallio e germanio. Pure la Russia ha annunciato che intende espandere le proprie forniture, in previsione del possibile aumento dei prezzi che riguarderà i due materiali. L’espansione nella produzione di gallio e germanio da parte di questi Paesi va comunque vista nel lungo termine, considerando i costi e il tempo che tali operazioni richiedono.
In questo contesto ci sono almeno due ordini di considerazioni da poter fare: il primo a carattere internazionale che riguarda la dinamica del conflitto tra Cina e Stati Uniti, e il secondo invece a carattere interno che riguarda le possibili ricadute industriali per Pechino.
Geopolitica dei semiconduttori
La prospettiva di Pechino è ovviamente quella della sicurezza nazionale, come ricordato dai funzionari del ministero che, nell’annunciare la stretta sull’export, hanno ricordato come le misure siano necessarie per tutelare “la sicurezza nazionale e gli interessi” della Cina. Al cuore di questa considerazione si trova infatti la competizione geostrategica con gli Stati Uniti e il fronte delle “tecno-democrazie” come Giappone e Paesi Bassi, che nell’industria del microchip rivestono un ruolo cruciale.
Nell’ultimo anno gli Stati Uniti hanno adottato una serie di misure atte a bloccare lo sviluppo della base industriale cinese nel settore dei semiconduttori. È dell’ottobre scorso la decisione di Joe Biden di bloccare l’export verso Pechino di microchip avanzati e dei macchinari necessari per produrli. Decisione a cui sono seguite anche le guardrails provisions incluse nel CHIPS and Science Act, le quali vincolano le industrie di semiconduttori riceventi sussidi statali al divieto di espandere i propri impianti produttivi in Cina. Tutte misure che mirano chiaramente a limitare l’accesso di Pechino a tecnologie per produrre microchip avanzati.
La Cina però sta passando al contrattacco. Già a maggio Pechino aveva mostrato una prima reazione, imponendo agli operatori di infrastrutture critiche nazionali di cessare gli acquisti di prodotti Micron, uno dei maggiori produttori statunitensi di memory chip. La Cyberspace Administration of China, autorità cinese sulla cybersicurezza, ha infatti affermato che Micron pone “rischi per la sicurezza della catena di approvvigionamento delle infrastrutture informatiche critiche della Cina”. Ora però il contrattacco di Pechino si sposta all’origine della supply chain dei semiconduttori, ovvero le materie prime critiche di cui ha il controllo.
La mossa cinese non avviene in un momento casuale. I Paesi Bassi hanno da pochi giorni confermato la propria adesione al blocco dell’export verso la Cina di macchinari fondamentali per la produzione di microchip avanzati, le stampanti litografiche, in vigore da settembre. Quindi senza approvazione del governo i giganti dell’industria come ASML non potranno esportare tali macchinari a Pechino, un problema visto che la Cina è uno dei maggiori clienti del colosso olandese. I Paesi Bassi rafforzano la propria posizione a fianco del Giappone tra le “tecno-democrazie” che hanno adottato restrizioni simili a quelle introdotte dagli Stati Uniti. L’amministrazione Biden ha messo molta pressione affinché il governo olandese si allineasse alle sue misure sugli export control. Oltre alla pressione politica, gli Stati Uniti hanno anche un’altra arma per convincere gli alleati a unirsi al blocco dell’export: Washington, infatti, sfrutta il fatto che molte società tech come ASML incorporano tecnologia americana nei propri prodotti per esercitare pressioni sui Paesi terzi affinché questi adottino restrizioni sull’export verso la Cina simili a quelle statunitensi.
Inoltre, la ritorsione di Pechino arriva pochi giorni prima della visita in Cina del segretario al Tesoro statunitense, Janet Yellen (6-9 luglio). Considerando le tensioni nei rapporti sino-americani degli ultimi anni con la competizione nelle industrie critiche che ha assunto un ruolo centrale, Pechino ha cercato di trovare una leva forte per presentarsi ai colloqui con Yellen. La mossa cinese arriva quindi anche in maniera preventiva, come un possibile monito verso Washington. Gli Stati Uniti starebbero infatti prendendo in considerazione l’imposizione di ulteriori controlli sull’export di microchip utilizzati per l’intelligenza artificiale e bloccare l’accesso ai servizi di leasing per i servizi di cloud computing.
La strumentalizzazione dell’interdipendenza
Col nuovo regime di restrizioni all’export, Pechino decide di sfruttare la propria centralità nella produzione di materie prime critiche per perseguire fini geopolitici. Si tratta di una strategia che la Cina ha già adottato in passato, come quando nel 2010 impose stringenti restrizioni all’export delle terre rare. In quell’occasione però l’obiettivo da colpire era il Giappone invece che gli Stati Uniti, e il motivo della contesa riguardava una disputa territoriale per la sovranità sulle isole Senkaku (amministrate da Tokyo ma rivendicate da Pechino, dove sono conosciute come isole Diaoyu). Dopo un incidente tra la guardia costiera giapponese e un peschereccio cinese nelle acque circostanti, Pechino aveva deciso di ridurre drasticamente la quota di terre rare destinate all’export.
In quel momento storico, la Cina deteneva un quasi monopolio nella produzione mineraria delle terre rare, ma gran parte della processazione industriale avveniva altrove. In questo settore downstream a maggior valore aggiunto e strettamente collegato allo sviluppo di tecnologie strategiche della transizione verde, come ad esempio i magneti permanenti (usati nelle turbine eoliche e nelle auto elettriche, ma anche negli aerei da combattimento e nel sistema di guida dei missili), una posizione particolarmente rilevante era rivestita proprio dal Giappone.
Le restrizioni all’export decise dalla Cina, che nel 2010 rappresentava il 97% dell’estrazione mineraria di questi materiali, ebbero un contraccolpo fortissimo per l’industria. La biforcazione tra mercato internazionale delle terre rare e quello cinese generò infatti un differenziale dei prezzi molto marcato, con conseguenze irreversibili dal punto di vista della distribuzione globale della produzione. Moltissime aziende di processazione spostarono le proprie attività in Cina per approfittare del collasso dei prezzi, mentre nel mercato internazionale il costo delle terre rare aumentò di diverse volte. Sebbene nel 2014 la Cina sia stata costretta dal WTO a rimuovere il sistema di quote per l’export, le ripercussioni industriali perdurano ancor oggi: l’aumento dei prezzi delle materie prime ha ridato slancio all’estrazione mineraria nel resto del mondo, ma allo stesso tempo la Cina ha conquistato la leadership nella processazione delle terre rare e nella produzione dei magneti permanenti.
Per quanto riguarda il gallio e il germanio è ancora troppo presto per valutare quale potrebbe essere l’impatto industriale delle restrizioni annunciate da Pechino. L’elemento chiave per determinare questo aspetto sarà l’applicazione del regolamento da parte della burocrazia cinese per concedere i permessi: quanto più l’applicazione sarà stringente nei confronti dell’export verso Paesi come gli Stati Uniti o l’Europa (che sono grandi importatori dei due materiali), tanto più l’effetto biforcazione tra mercato internazionale e mercato cinese diventerà evidente. Se il differenziale tra i prezzi dovesse crescere sufficientemente, la Cina potrebbe intraprendere un processo di upgrading riguardo le tecnologie basate su gallio e germanio simile a quanto successo con le terre rare un decennio fa. Il tutto a meno di interventi politici da parte dei governi occidentali per arginare gli effetti delle misure cinesi, che nel presente clima di tensione geopolitica non sono affatto fuori discussione.