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ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass. pen., Sez. VI, 18/1/2023, n. 8729

Cass. pen., Sez. VI, 26/1/2023, n. 11733

Cass. pen., Sez. VI, 15/9/2022, n. 9187

Sulla riforma assolutoria della sentenza in appello

Cass. pen., Sez. Un., 21/12/2017, n. 14800 dep. 2018

Cass. pen., Sez. Un., 12/7/2005, n. 33748

Cass. pen., Sez. VI, 2/2/2021, n. 14586

Cass. pen., Sez. VI, 11/7/2019, n. 51898

Sul principio in base al quale la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati

Cass. pen., Sez. VI, 18/3/2009, n. 28553

Cass. pen., Sez. VI, 8/3/2006, n. 31413

Difformi

Non si rinvengono precedenti

Il caso concerne un’ipotesi di maltrattamenti aggravati dallo stato di gravidanza della vittima posti in essere dal titolare di un negozio di parrucchiera.

Le condotte costitutive sono consistite in insulti sull’aspetto fisico della vittima, minacce di licenziamento laddove la persona offesa fosse rimasta incinta, l’imposizione di lavori gravosi e umilianti, ingiurie e bestemmie in presenza di clienti e colleghe di lavoro.

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La vittima aveva rappresentato condizioni di debolezza economica che non le consentirono di rinunciare al rapporto di lavoro, fino al licenziamento comminatole per giusta causa.

In particolare, un investigatore privato assunto dalla parte datoriale aveva accertato che la persona offesa lavorava ‘in prova’ da altro parrucchiere, dopo che le era stato vietato di tornare sul luogo di lavoro da parte dell’imputata.

La Corte territoriale ha invece assolto l’imputata, per avere ritenuto le dichiarazioni della persona offesa incongruenti, sia intrinsecamente che rispetto alle testimonianze assunte.

Nello specifico la Corte di merito aveva valorizzato, tra le altre, le circostanze che:

1) la lavoratrice avesse inammissibilmente chiesto alla datrice di poter lavorare anche durante il periodo di astensione per maternità,

2) il licenziamento era stato ritenuto legittimo dal Tribunale del Lavoro,

3) la denuncia della persona offesa era avvenuta non solo con ritardo, ma strumentalmente proprio dopo il licenziamento.

Con ricorso di legittimità la parte civile ha altresì denunciato vizio di motivazione della sentenza impugnata per il reiterato erroneo riferimento al delitto di atti persecutori e non a quello di maltrattamenti, tanto da travisare il risultato probatorio anche con riferimento ai differenti elementi costitutivi delle due fattispecie, visto che l’art. 612-bis c.p. è un reato di evento, mentre l’art. 572 c.p. è un reato di pura condotta.

Ha poi denunciato contraddittorietà della motivazione in ordine alla valutazione delle dichiarazioni testimoniali rese dalla persona offesa, altresì lamentando che la ‘tardività’ della denuncia non può essere per ciò sola motivo di inattendibilità.

La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso proposto, richiamando la giurisprudenza nomofilattica in tema di ribaltamento della sentenza condemnatoria in appello e di delitto di maltrattamenti nella declinazione del cosiddetto mobbing verticale, consistente in condotte vessatorie e prevaricatorie poste in essere dal datore di lavoro (o da soggetto gerarchicamente sovraordinato) nei confronti del dipendente-persona offesa.

Sulla riforma assolutoria della sentenza in appello la sentenza Cass. pen., Sez. Un., n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, T. ha affermato che il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva.

In sostanza, il giudice di appello deve spiegare, in modo idoneo e coerente, l’insostenibilità logica della ricostruzione e delle valutazioni effettuate nel precedente grado di merito. Ciò deve avvenire, da un lato, fornendo una compiuta giustificazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado; dall’altro lato, dando conto degli specifici passaggi logici idonei a conferire alla decisione una forza persuasiva superiore rispetto a quella riformata.

L’operazione ermeneutica richiesta per ribaltare una sentenza di condanna consiste nella confutazione delle emergenze istruttorie poste dal Tribunale a fondamento dell’opposto assunto, non bastando una parcellizzata lettura del materiale istruttorio che non specifichi le evidenze ritenute decisive.

Il giudice di secondo grado deve perciò concentrare la propria valutazione sui fatti posti a base del contenuto narrativo di questa, vagliandone in modo puntuale la credibilità e l’attendibilità, per poi incrociarli con altre prove di riscontro, ove ve ne siano, e tenendo in doveroso conto di tutte le circostanze concrete della relazione maltrattante e della condizione di supremazia (economica, affettiva, psicologica, ecc.) dell’autore.

In ragione di tali principi nel caso in esame la Suprema Corte ha ritenuto accoglibile il motivo dedotto dalla parte civile in punto vizio motivazionale.

Sul ritardo della proposizione della denuncia, la Corte ha osservato che soltanto l’ordinamento stabilisce i termini entro i quali un diritto può essere esercitato davanti all’Autorità Giudiziaria.

Per la proposizione della querela il termine è fissato dall’art. 124 c.p., mentre per la denuncia esso non è stabilito. Ne consegue che il momento in cui detti atti sono presentati non può essere, di per sè, dimostrativo dell’attendibilità o meno di chi adisce le vie legali nei confronti di qualcuno, in quanto delinea solo la finestra temporale riconosciuta per la ponderazione dell’esercizio di un diritto che, specie a fronte di un delitto abituale procedibile di ufficio, come nella concreta situazione di vita, non prevede termini per richiederne la tutela.

La valorizzazione di un ‘ritardo’ pretende puntuale e specifica motivazione sugli elementi di fatto in forza dei quali il Giudicante giunge alla propria decisione, previo esame della relazione asimmetrica e fiduciaria (o affettiva) tra imputato e persona offesa; delle eventuali ragioni addotte da quest’ultima per pervenire alla propria decisione, e, in ogni caso, della specificità del delitto denunciato quando per esso sia necessario un tempo di elaborazione della scelta in considerazione delle conseguenze che ne potrebbero derivare per la stessa vittima come, nella specie, il licenziamento.

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In ordine tema della pretesa ritenuta inattendibilità della persona offesa vista la legittimità del licenziamento per giusta causa pronunciata dal Tribunale del Lavoro, (in ipotesi) tale da rendere per ciò solo strumentale la denuncia per i maltrattamenti subiti dalla datrice di lavoro, la sentenza in disamina ha richiamato il principio in forza del quale “la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati” (Cass. pen., Sez. VI. n. 28553 del 18/3/2009, O., Rv. 246637; Cass. pen., Sez. VI, n. 31413 del 8/3/2006, R., Rv. 234855).

Così ha precisato la sentenza che ci occupa: “infatti, il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private; mentre il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con l’abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell’accertamento della consumazione del delitto (Cass. pen., Sez. VI, n. 8729 del 18/1/2023, A., non mass.; Cass. pen., Sez. VI, n. 11733 del 26/1/2023, F., non mass.; Cass. pen., Sez. VI, n. 9187 del 15/9/2022, dep. 2023, C., non mass.; Cass. pen., Sez. VI, n. 809 del 17/10/2022, dep. 2023, V., Rv. 284107; Cass. pen., Sez. VI, n. 30340 del 8/7/2022, S., non mass.; Cass. pen., Sez. VI, n. 19847 del 22/4/2022, M., non mass.)”.

La sentenza offre poi un aggiornamento sui criteri di valutazione della (in)fondatezza dell’ipotesi di accusa, osservando che fino alla riforma “Cartabia” contenuta nel D.Lgs. n. 150/2022 essa era delineata nell’art. 125 disp. att. c.p.p. e disponeva che la notizia di reato era infondata quando “gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”, laddove oggi il discrimine tra fondatezza ed infondatezza è stato collocato nel codice di procedura penale che all’art. 408 ha modificato la regola di valutazione stabilendo che l’infondatezza, di cui viene fortemente ampliato l’ambito, sussiste “quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di fornire una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca”.

Riferimenti normativi:

Art. 572 c.p.

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