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Il sistema contributivo italiano è una rozza approssimazione del modello Ndc varato in Svezia nel 1998. Lacune ed errori impediscono gli scopi per i quali fu scelto. La classe politica sembra inconsapevole e assume provvedimenti ulteriormente peggiorativi.

Le origini

Nei primi anni Novanta, le proiezioni demografiche annunciavano il fallimento dei sistemi a ripartizione. Nell’arco di pochi decenni, la natalità calante e la longevità crescente avrebbero invecchiato le popolazioni determinando un formidabile balzo in avanti dei quozienti di dipendenza. I governi non avrebbero avuto la forza di contrastarlo con sufficienti aumenti dell’età pensionabile, né di compensarlo riducendo a sufficienza la generosità delle pensioni. I Nobel Franco Modigliani e Peter Diamond proponevano di passare alla capitalizzazione a contributo definito, immune dal rischio di bancarotta oltre che equa perché ‘corrispettiva’.

Tuttavia, per uscire dalla ‘trappola’ della ripartizione, occorreva pagare il ‘biglietto’ della doppia contribuzione: nella fase transitoria, le generazioni attive avrebbero dovuto finanziare le pensioni di quelle in quiescenza e accumulare al contempo il capitale destinato alle proprie.

Il modello Ndc

Nel 1994 il governo svedese affidò l’enigma a una commissione di esperti il cui lungo lavoro sfociò in un’epocale riforma entrata in vigore nel 1998 e passata alla storia del welfare mondiale con l’acronimo Ndc (da Notional Defined Contribution). Importato da altri paesi, il modello svedese continua a suscitare l’interesse dei governi, delle istituzioni internazionali e degli economisti accademici che ne indagano le proprietà.

In sintesi, l’Ndc è un sistema a ripartizione che mutua il modus operandi della capitalizzazione. Il suo primo scopo è la “corrispettività” intesa come l’equivalenza fra la pensione percepita e i contributi versati. Infatti, a ogni individuo è intestato un ‘conto personale’ da cui le annualità di pensione sono ‘prelevate’ nel limite dei contributi in precedenza ‘depositati’. In realtà, il conto è “fruttifero”, cosicché il vero limite è quello dei contributi aumentati dei frutti. Il teorema di Samuelson‑Aaron avrebbe richiesto che i frutti fossero calcolati secondo un tasso convenzionale pari alla crescita percentuale del reddito da lavoro aggregato (base imponibile della contribuzione). Tuttavia, le proiezioni demografiche annunciavano la tenuta della popolazione attiva per qualche decennio, così da poter surrogare la crescita del reddito aggregato con quella del reddito medio, più gradita ai sindacati.

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Il secondo scopo dell’Ndc è la “sostenibilità”, che segue dal primo perché l’equivalenza microeconomica fra la pensione e i contributi di ogni individuo genera quella macroeconomica fra la spesa pensionistica e il gettito contributivo. Nessuna promessa da marinaio: la sostenibilità è da intendere come la garanzia che i sacrifici imposti dall’invecchiamento demografico sono realizzati, senza ritardi né sconti, dagli automatismi di cui l’Ndc è dotato.

Alla semplicità degli scopi non corrisponde quella dei mezzi, primo fra tutti il “coefficiente di trasformazione” incaricato di presidiare la corrispettività. Infatti, serve a spalmare il ‘montante contributivo’ (saldo del conto personale al pensionamento) sulla durata attesa della pensione. Più esattamente, il coefficiente è il reciproco della durata, cosicché la sua moltiplicazione per il montante suddivide quest’ultimo in tante annualità di pensione quanti sono gli anni che restano da vivere.

All’aumentare dell’età al pensionamento, la durata diminuisce, cosicché il coefficiente aumenta, consentendo annualità più generose. Altrettanto vero è che (a parità d’età) la longevità progredisce con l’anno di nascita facendo lievitare la durata e quindi diminuire il coefficiente. Per tale duplice motivo, quest’ultimo è diversificato sia per età, sia per anno di nascita. In pratica, a ogni coorte sono assegnati coefficienti suoi propri, crescenti per età.

Non meno complesso è il meccanismo di perequazione, collegato alla diversa sorte delle annualità in cui il montante è suddiviso. La prima è subito prelevata dal conto personale (sia pur in rate mensili), mentre le successive vi restano giacenti fino all’età cui sono destinate. Il conto rimane fruttifero dopo il pensionamento, cosicché la seconda annualità matura frutti per un anno, la terza per due, la quarta per tre, e così via. Ecco perché il valore al prelievo di un’annualità è uguale a quello della precedente aumentato dell’interesse convenzionale. Per implementare tutto ciò, quest’ultimo è usato non solo per rivalutare i montanti contributivi in formazione, ma anche per perequare le pensioni. In tal modo, i conti personali di tutti i “correntisti”, attivi e pensionati, sono remunerati allo stesso modo. Ed è dimostrato che tale forma di equità intergenerazionale è imprescindibile per la sostenibilità del sistema.

Una variante del modello base consente di “scontare” la perequazione (cioè accettarne una inferiore all’interesse convenzionale) per ottenere in cambio una maggiorazione dei coefficienti. In pratica, la variante serve a modificare il profilo temporale della pensione a vantaggio delle età più giovani e a scapito delle più anziane. Precisamente questa fu la scelta, giustificata dal fatto che, in presenza di un sistema socio‑sanitario efficiente e gratuito, i bisogni flettono al crescere dell’età.

Complesso è anche il Balance Mechanism deputato a “correggere al ribasso” l’interesse convenzionale al fine di compensare il longevity risk, cioè il rischio che le pensioni durino più di quanto stimato dai coefficienti backward looking, cioè basati sulla sopravvivenza rilevata in passato. Per ragioni non facilmente sintetizzabili, il rischio cresce per chi va in pensione prima. Ciò spiega l’età pensionabile minima di 65 anni e l’esclusione della pensione d’anzianità.

La riforma svedese riguardò anche una quantità di altri aspetti. Un cenno merita il profondo riordino istituzionale con cui l’invalidità “lavoristica”, incompatibile col fine della corrispettività, fu separata dalla vecchiaia e ricongiunta all’invalidità civile, mentre la separazione fra previdenza e assistenza fu scandita scorporando dalla Social Security (equivalente all’Inps italiano) la Pension Agency, cui furono demandate le sole pensioni Ndc di vecchiaia.

Il “contributivo” all’italiana

Col nome di “capitalizzazione virtuale”, l’Ndc fu ideato in Italia prima che in Svezia, ma restò confinato, per dirla con Michele Salvati, “in circoli poco più ampi di quelli accademici” fino al 1995, quando fu chiamato alla ribalta dal governo Dini, incaricato dal Presidente Scalfaro di quadrare il cerchio, cioè realizzare una riforma significativa evitando il ritorno in piazza del milione di lavoratori che aveva appena affossato quella del primo governo Berlusconi.

Per evitare la stessa fine, Lamberto Dini sparigliò le carte proponendo la novità copernicana del sistema che fu chiamato “contributivo”. I sindacati la approvarono ottenendo, in cambio, il rinvio alle calende greche, cioè il diritto dei lavoratori ‘maturi’ a mantenere il calcolo retributivo e dei “giovani” al pro‑rata.

Oltre che rinviata, la riforma fu miseramente ridotta alla sola regola di calcolo della pensione. Le raccomandazioni dello scrivente non impedirono che ogni altro aspetto del modello Ndc fosse ignorato. In particolare, fu totalmente omesso il capitolo della perequazione accreditando la ‘bufala’ che la conclamata sostenibilità sarebbe stata garantita a prescindere dal modo in cui le pensioni fossero state perequate. Né fu sciolta la matassa della commistione fra previdenza e assistenza, eccezion fatta dell’importante sostituzione del trattamento minimo con l’assegno sociale, le cui ragioni sembrano oggi dimenticate.

Alle lacune si aggiunsero gli errori: la scelta di un interesse convenzionale pari alla crescita dell’intero Pil, anziché del solo reddito da lavoro, pregiudica la sostenibilità scontando l’ingiustificata ipotesi che le quote distributive sono costanti. Mentre la scelta di non differenziare i coefficienti per coorte, bensì aggiornarli periodicamente, pregiudica l’equità intra‑generazionale e punisce chi posticipa il pensionamento.

Nei 28 anni da allora trascorsi, i mille provvedimenti assunti dall’incontenibile legislatore previdenziale non hanno posto alcun rimedio. Anzi, sono spesso stati peggiorativi. In particolare, quelli riguardanti l’età pensionabile hanno ignorato il longevity risk e generato gravi iniquità fra ‘misti’ e ‘puri’ nella fase transitoria. Da ultimo, la mal definita “riduzione del cuneo fiscale”, sollecitata dalle parti sociali, vantata dal governo e giudicata insufficiente dalle opposizioni, ha disinvoltamente sconfessato la corrispettività, cioè il fondamento stesso del modello Ndc.

L’incipiente inverno demografico troverà un sistema pensionistico confuso e privo dei mezzi per affrontarlo. Di maldestre riforme sentiremo ancora parlare.

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Sandro Gronchi

Sandro Gronchi è stato Professore di Economia Politica presso l’Università di Siena fino al 1986 e alla Sapienza di Roma successivamente. E’ stato anche docente presso la Scuola Superiore dell’Economia e della Finanze. In Università del Regno Unito ha svolto programmi di ricerca finanziati dalla Nato e dalla British Academy. Si è occupato di equilibrio economico generale e di teoria del capitale. Da oltre trent’anni, si occupa di conseguenze economiche dei mutamenti demografici, overlapping generations, generational accounting e teoria dei sistemi pensionistici. E’ autore di oltre 50 lavori pubblicati in Italia e all’estero. Ha prestato attività di consulenza a istituzioni pubbliche e private tra cui il Ministero del Lavoro, la Ragioneria Generale dello Stato, la Direzione Generale del Tesoro, il CNEL , il Ministero dell’Economia, la Banca d’Italia, il Mediocredito Centrale, la Banca di Roma, il Banco di Sicilia, Capitalia, Unicredit, la Fondazione ENASARCO, MEFOP. E’ autore di numerosi interventi su quotidiani e periodici italiani.



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