Il presidente russo Vladimir Putin con il viceministro della Difesa Junus-bek Evkurov e (alla sinsitra di quest’ultimo) il colonnello in pensione Andrej Trošev detto “Sedoj”. Foto di MIKHAIL METZEL/POOL/AFP via Getty Images.
Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni: la Russia ristruttura il Gruppo Wagner, cresce alla Camera dei rappresentanti Usa l’opposizione agli aiuti all’Ucraina, una missione internazionale per Haiti, la Francia via dal Niger…
I CAPELLI GRIGI DELLA WAGNER [di Mirko Mussetti]
Il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha ricevuto al Cremlino il colonnello in pensione Andrej Trošev detto “Sedoj” (dai capelli grigi), già funzionario del ministero dell’Interno ed “eroe” nazionale per i suoi contributi durante la guerra sovietica d’Afghanistan, il secondo conflitto armato di Cecenia e la campagna bellica di Siria. Presente all’incontro anche il viceministro della Difesa Junus-bek Evkurov, ex generale e già governatore della repubblica etnica dell’Inguscezia. I tre notabili russi hanno discusso di un nuovo ruolo da affidare all’esperto Sedoj, che per più di un anno è stato anche comandante d’alto rango nella compagnia militare privata Wagner guidata dal defunto ex chef di Putin Evgenij Prigožin.
Rivolgendosi a Trošev, il presidente russo ha ricordato il faccia a faccia di luglio: “Nel nostro ultimo incontro, abbiamo discusso di un progetto per costituire unità di volontari militari in grado di svolgere vari compiti di combattimento, principalmente nella zona dell’operazione militare speciale”. Le immagini dell’incontro della sera del 28 settembre andate in onda all’indomani sulla Tv pubblica sono un chiaro tentativo del Cremlino di dimostrare il totale controllo dello Stato sul gruppo mercenario a pochi mesi dal fallito ammutinamento (24 giugno 2023) guidato da Prigožin. Ma anche un modo per segnalare la ristrutturazione della famigerata compagnia militare che, oltre a riscuotere simpatie popolari nella Federazione, ha ottenuto importanti successi sui campi di battaglia di Ucraina e Africa. Insomma, Putin non può permettersi di rinunciare all’esperienza maturata dai veterani wagneriti durante l’invasione dell’ex paese satellite né alla flessibilità mostrata dall’esercito privato nel Sahel (presidio areale, addestramento di eserciti regolari, sostegno nei colpi di Stato…). Sedoj viene dunque presentato da Putin come successore di quell’”uomo dal destino difficile ma di talento” che era Prigožin.
Il giocattolino Wagner non deve essere completamente smontato, bensì ridimensionato e ricondotto all’ombra della ‘verticale del potere‘ di Putin.
USA E SOSTEGNO ALL’UCRAINA [di Federico Petroni]
Per la prima volta, la maggioranza dei repubblicani alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha votato contro nuovi aiuti militari all’Ucraina. La bozza di legge è passata comunque (311 sì, 117 no), ma la notizia ha immediatamente fatto il giro del mondo, rilanciata da chi teme (o spera) la fine del supporto bellico a Kiev. Se si guardasse con più attenzione, si noterebbe che la notizia è fuorviante.
È vero, 117 repubblicani su 221 hanno votato contro il nuovo pacchetto di forniture proposto dal governo. Ma non è questo il voto che conta per capire chi vuole davvero smettere di mandare armi agli ucraini. Mercoledì, sempre alla Camera, la maggioranza dei repubblicani ha sistematicamente respinto tre mozioni, promosse dall’ala trumpiana, per ridurre o azzerare gli aiuti bellici. Tra queste, una presentata dal deputato della Florida Matt Gaetz per proibire ogni nuova fornitura a Kiev. È stata approvata da 93 parlamentari, una minoranza anche all’interno del Grand Old Party.
Allora perché in 117 hanno votato contro? La bozza sull’Ucraina è stata scorporata dalla legge sul bilancio del Pentagono, che non riusciva a ricevere l’approvazione della maggioranza dei repubblicani. Appena tolta, il bilancio è passato (218-210). Può essere allora che a votare contro siano stati dei deputati favorevoli all’invio di armi ma contrari a separare i due capitoli di bilancio. Sapendo benissimo che il loro “no” aveva un impatto molto limitato.
In ogni caso, l’opposizione agli aiuti a Kiev sta aumentando alla Camera (al Senato invece i repubblicani tradizionali sono ancora largamente maggioritari). A luglio, la mozione per proibirli aveva ricevuto il sì di 70 repubblicani. In due mesi e mezzo sono aumentati di 23 unità. È l’esito dei deludenti risultati della controffensiva. E dei sondaggi, che suggeriscono più fatica tra gli elettori rispetto alla primavera per quella che si teme diventerà l’ennesima guerra eterna degli Stati Uniti. D’altronde, i tre più popolari candidati per la nomination repubblicana – Donald Trump, Ron DeSantis e Vivek Ramaswamy – sono tutti per ridurre sensibilmente, se non fermare, l’invio di armi.
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MISSIONE (INTERNAZIONALE) HAITI [di Federico Larsen]
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sta valutando una proposta di risoluzione di Stati Uniti ed Ecuador a sostegno di una missione internazionale di appoggio alla polizia di Haiti nella lotta contro le gang, che controllano ormai buona parte del paese. Guiderà la missione il Kenya, che nei giorni scorsi ha firmato un accordo di difesa con gli Usa che include lo stanziamento di 100 milioni di dollari da parte di Washington per sostenere l’invio di circa mille agenti speciali della polizia keniota a Port-au-Prince. Alcuni paesi caraibici come Giamaica, Belize, Antigua e Barbuda e Bahamas hanno dato la disponibilità a partecipare alla missione. Secondo il Miami Herald, c’è anche l’impegno di Italia, Spagna, Mongolia, Suriname, Senegal, Guatemala e Perù, che valuteranno come contribuire una volta approvata la risoluzione.
Il paese più povero dell’emisfero occidentale è piombato in un vortice di violenza sotto l’azione delle gang criminali che si contendono il controllo del territorio; i porti di Haiti servono spesso da appoggio per i traffici di droga e armi tra Nord e Sud America.
Il ministro degli Esteri del Kenya sostiene che il suo paese ha assunto quest’impegno alla luce dell’esperienza fornita dalle missioni effettuate in Namibia, Sierra Leone, Timor Est, Sud Sudan, Somalia o Repubblica Democratica del Congo. Ma specialmente in funzione del pan-africanismo, prospettiva storicamente radicata nella politica estera keniota e che porta il paese a intervenire a sostegno dei discendenti della diaspora africana nel mondo. Questo spiegherebbe anche la presenza di nazioni afro-caraibiche tra i primi sostenitori dell’iniziativa. La composizione provvisoria della forza multinazionale tende anche a evitare il ripetersi di esperienze drammatiche già portate avanti in passato, come quella della missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah), che tra il 2004 e il 2018 fu accusata di violazioni dei diritti della popolazione e introdusse un focolaio di colera che uccise diecimila haitiani. Il Brasile di Lula, a capo di quella traumatica esperienza, ha già annunciato che questa volta non sarà coinvolto. I paesi dell’America Latina hanno finora un ruolo secondario, pur trattandosi di un grave problema regionale.
Restano molti dubbi sull’efficacia della proposta di Washington e Nairobi. Innanzitutto se l’invio di poche centinaia di agenti di polizia sia sufficiente per affrontare uno scenario così complesso. Ci si chiede come potranno gli ufficiali kenioti, che parlano inglese e swahili, formare agenti haitiani che parlano francese e creolo. L’esercito del Kenya inoltre è da tempo sotto accusa per violazione dei diritti umani che avrebbe commesso nelle missioni internazionali cui ha partecipato.
Questo intervento esterno sarebbe ottimo per il primo ministro haitiano Ariel Henry, che da quasi due anni intralcia ogni tentativo di formazione di un governo di unità nazionale che restituisca legittimità alle autorità locali: dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse sono state sospese tutte le elezioni, il parlamento è decaduto e buona parte della magistratura ha abbandonato i propri incarichi. Henry, fortemente contestato in patria, si mantiene al potere grazie al sostegno di Washington; una missione internazionale rafforzerebbe il suo ruolo.
AFRICA: FRANCIA FUORI, USA DENTRO [di Luciano Pollichieni]
La Francia annuncia il proprio ritiro dal Niger, mentre il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin archivia il suo tour africano. Le due notizie sono esemplificative del clima diverso che si respira tra Parigi e Washington. L’annuncio del ritiro di ambasciatore e Forze armate dal Niger, dato dal presidente transalpino Emmanuel Macron in diretta televisiva nazionale, è l’ennesimo smacco africano per la Francia. La quale è riuscita solo a ottenere che l’evacuazione dell’ambasciatore Sylvain Itté avvenisse nella notte, evitando una passerella umiliante per l’Esagono a vantaggio dei golpisti.
Parigi adesso deve fare i conti con il proprio isolamento. La linea del non intervento in Niger a favore di una transizione concordata è ormai maggioritaria. Non solo Stati europei (Italia in primis) e membri dell’Ecowas, ma anche gli Stati Uniti hanno adottato una postura più conciliante con la giunta. I droni americani hanno ripreso a sorvolare Agadez da due settimane e nessun funzionario statunitense ha proferito la parola “golpe” negli ultimi due mesi. Alla Francia non resta che concentrarsi sulle trattative per un ritiro agevole e rapido dei propri militari dal paese.
Lloyd Austin ha accennato al Niger durante la tappa keniota del suo tour africano, ma solo per assicurare che la presenza delle Forze armate Usa non ha subìto modifiche rilevanti dopo i fatti di luglio. Gli sforzi del capo del Pentagono si sono concentrati sull’accordo di cooperazione firmato a Nairobi per saldare ulteriormente il Kenya alla sfera d’influenza a stelle e strisce. Risultato non scontato, visti i generosi finanziamenti della Repubblica Popolare Cinese al paese equatoriale.
Con questa intesa, Washington s’impegna anche a supportare (con soldi e logistica) le Forze armate di Nairobi in vista del loro possibile dispiegamento ad Haiti. Non meno rilevante la tappa in Angola, dove la Casa Bianca punta a sottrarre un cliente a Mosca e Pechino e a consolidare la propria presenza nell’ex colonia portoghese. Nei piani di Washington, Luanda dovrebbe diventare un’appendice della Partnership for Global Infrastructure and Investment (Pgii) mediante il corridoio commerciale tra Angola, Zambia e Congo-Kinshasa.
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