A mente dell’art. 166, comma 3, lett. a) CCII i pagamenti devono essere stati disposti “nell’esercizio dell’attività d’impresa”. Volendo assegnare alla locuzione un significato coerente con la ratio della norma, per beneficiare dell’esenzione i pagamenti devono pertanto risultare strumentalmente destinati a consentire all’imprenditore in crisi di procurarsi beni e servizi e, con essi, di proseguire l’attività produttiva. In questa prospettiva si pone la giurisprudenza di merito, laddove afferma che la locuzione “esercizio dell’attività di impresa” va “riferita all’oggetto tipico dell’attività di ogni imprenditore, con l’esclusione quindi di operazioni che con quell’attività non abbiano un nesso, nemmeno strumentale”[25], e considera sotto questo profilo immune da revocatoria – ad esempio – il pagamento dei ratei assicurativi necessari per permettere al solvens di continuare la propria attività imprenditoriale che, altrimenti, sarebbe impossibilitato a svolgere [26].
Rimangono quindi senz’altro fuori dall’esenzione i pagamenti dell’imprenditore individuale volti a soddisfare sue esigenze personali, estranee alla sua attività imprenditoriale [27], così come quelli eseguiti dall’imprenditore collettivo nelle ipotesi in cui: (a) l’attività produttiva debba ancora essere iniziata o, al contrario, sia già cessata[28]; (b) l’attività d’impresa sia in corso di svolgimento, ma l’atto solutorio non sia funzionalmente orientato a consentirne la prosecuzione, come ad es. accade quando si riferisca ad un rapporto contrattuale già risolto o altrimenti esauritosi [29], o quando il pagamento stesso si sostanzi nella dismissione di un bene necessario alla continuazione dell’attività produttiva[30].
In diverse occasioni la giurisprudenza di merito ha mostrato per il vero di voler assegnare alla locuzione in esame una portata diversa e peculiare. Riprendendo nella sostanza l’impostazione dottrinale che riferisce l’usualità all’esercizio dell’attività d’impresa[31], talune decisioni hanno invero affermato che tale attività, nel cui svolgimento i pagamenti si collocano, dovrebbe essere caratterizzata da “ordinarietà”, ed hanno così collocato fuori dalla portata della norma (e considerato quindi revocabili) “i pagamenti connessi ad operazioni straordinarie ed eccezionali, in quanto non giustificate dalla normale gestione aziendale”, invocando a sostegno di tale conclusione anche l’impossibilità di accedere ad una interpretazione estensiva dell’esenzione in esame, per la sua natura di eccezione al principio generale della par condicio creditorum[32]. Collocandosi in questo ordine di idee diversi Tribunali hanno così escluso che possa beneficiare dell’esenzione de qua il pagamento di compensi per attività professionali svolte in contesti di crisi dell’impresa e funzionali a perseguire il suo superamento, valorizzando in tal senso l’“eccezionalità del rapporto” [33] o il carattere “straordinario” di tali attività, per le quali non sarebbero neppure ipotizzabili “termini d’uso per il pagamento come per le abituali forniture di merci o prestazioni di servizi continuativi”[34]; ovvero rimarcando la loro estraneità “all’ordinario funzionamento dell’attività produttiva o commerciale dell’impresa”[35] o al suo oggetto sociale [36], o il loro valore “non indispensabile alla continuazione dell’impresa”[37].
La tesi riferita tuttavia non persuade, perché – per comune opinione – nella struttura e nel lessico della norma l’usualità deve essere riferita ai pagamenti, e non già ai beni e servizi, né tanto meno all’attività d’impresa[38], la quale non deve quindi essere affatto connotata da “ordinarietà”. Ciò che rileva, ai fini dell’operatività dell’esenzione, come si è detto, è piuttosto che il pagamento sia funzionale a consentire all’imprenditore di procurarsi beni e servizi grazie ai quali proseguire l’attività, fra i quali rientrano indubbiamente, quindi, anche i servizi professionali resi in situazioni “non ordinarie” di crisi, non potendosi ragionevolmente dubitare che si tratti di prestazioni comunque svolte nell’interesse dell’impresa e parimenti funzionali a salvaguardare l’operatività aziendale [39].
Non meno criticabile si rivela l’ulteriore orientamento, affacciatosi in altre occasioni in giurisprudenza, secondo il quale l’inerenza degli atti solutori all’esercizio dell’impresa dovrebbe leggersi nel senso di escludere dall’esenzione non soltanto i pagamenti rispondenti a finalità assolutamente diverse da quelle riconducibili all’attività di impresa, ma anche quelli relativi ad operazioni estranee alla gestione caratteristica o all’oggetto sociale dell’impresa [40]. In realtà, la conformità di un atto all’oggetto sociale, prescritta dall’art. 2380 bis c.c., esprime la sua strumentalità, diretta o indiretta, rispetto alla specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell’atto costitutivo in vista del perseguimento dello scopo di lucro proprio dell’ente [41], e rileva sul piano meramente interno quale limite ai poteri gestori degli amministratori, e perciò quale possibile fonte di un’azione di responsabilità nei confronti degli stessi qualora abbiano posto in essere atti ad esso estranei. Si tratta quindi di un parametro che nulla ha a che spartire con la pertinenza del pagamento all’esercizio dell’attività d’impresa, richiesta dalla lettera a) dell’art. 166: ai fini dell’esonero da revocatoria occorre infatti che il pagamento sia strumentale a garantire la prosecuzione di tale attività nel suo fattuale svolgersi [42], restando indifferente – a questi specifici fini – che l’atto solutorio risulti anche coerente con il programma economico perseguito dalla società.
Altro tema che registra un tasso di incertezza non indifferente riguarda l’applicabilità dell’esenzione in esame ai pagamenti eseguiti dal solvens durante la fase di liquidazione. In talune decisioni si trova infatti affermato che tale esenzione – riguardando i soli pagamenti effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso – non coprirebbe i pagamenti effettuati nel corso della liquidazione della società [43], essendo questa orientata “ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”[44], mentre in altre si è optato per la tesi diametralmente opposta, sostenendosi che nella nozione di pagamenti effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa “deve farsi rientrare anche la fase di liquidazione essendo questa, tra l’altro, finalizzata proprio al pagamento dei creditori”[45].
La soluzione maggiormente persuasiva, in quanto sintonica con le finalità perseguite dal legislatore, impone in verità di distinguere, avendo riguardo al ruolo che il momento gestionale riveste nella disciplina codicistica della liquidazione. L’elemento caratterizzante di tale disciplina risiede infatti nella valorizzazione dell’attività di liquidazione come forma di gestione dell’impresa [46], che trova chiara espressione nel disposto dell’art. 2487, comma 1, lett. c) c.c., secondo il quale la società, pur in liquidazione, può continuare a svolgere “gli atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, ivi compreso l’esercizio provvisorio … in funzione del miglior realizzo”, e dell’art. 2490, comma 5, c.c., che contempla la “continuazione, anche parziale, dell’attività d’impresa”. In questa prospettiva, l’ingresso della società nella fase liquidatoria non comporta quindi l’ineluttabile cessazione dell’attività imprenditoriale, ben potendo tale attività proseguire ove ciò sia ritenuto, nel caso concreto, funzionale a preservare il valore dell’impresa in vista di una migliore liquidazione, cioè “atto utile per la liquidazione” (art. 2489 c.c.)[47].
La circostanza che la società sia stata posta in liquidazione non può dunque ritenersi di per sé senz’altro preclusiva all’applicazione dell’esenzione de qua, dovendosi invece valutare caso per caso se l’impresa sia o meno ancora in esercizio[48] [49]. In quest’ultima ipotesi, i pagamenti delle forniture di beni e servizi funzionali a consentire la prosecuzione dell’attività, se eseguiti nei termini d’uso, sfuggono infatti a revocatoria, mentre ad opposta conclusione deve pervenirsi quando si tratti di pagamenti eseguiti dopo la cessazione di ogni attività produttiva [50], o ad estinzione di debiti riferiti al periodo in cui la società era ancora operativa, non essendo tali atti solutori diretti a garantire la continuità aziendale del debitore che rappresenta la ratio sottesa all’esenzione da revocatoria[51]. Si tratta di soluzione ermeneutica che, da ultimo, ha trovato conforto anche nella giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ha affermato che, salvo diversa previsione statutaria, la liquidazione volontaria “non impedisce la continuità del ciclo produttivo, in quanto ciò costituisca utilità per i fini della liquidazione”, concludendo quindi che rimangono senza dubbio revocabili i pagamenti di forniture strumentali alla continuità aziendale del solvens intervenuti nella fase liquidatoria [52].