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L’ultimo viaggio di Thomas Will per una visita ispettiva a un campo di concentramento nazista lo ha condotto in Polonia, a Płaszów. Oggi il sito è ricoperto da una folta vegetazione boschiva da cui spiccano i binari ferroviari arrugginiti e le torri di avvistamento, ancora al loro posto, consumate dalle intemperie. Poco prima dell’arrivo del sessantatreenne tedesco, è stata celebrata una cerimonia commemorativa dedicata alle migliaia di lavoratori forzati morti a Płaszów, compresi quelli uccisi per puro divertimento dal comandante del campo, Amon Göth. La villa dove l’ufficiale delle SS viveva è rimasta in piedi insieme agli uffici e alle celle del carcere. I visitatori guidati nei tour di Schindler’s List tendono a percorrere il terreno in poche ore prima di spostarsi alla cava dove Spielberg ha girato gli esterni per il suo famoso film incentrato sul campo. Will non era interessato all’aspetto hollywoodiano. Si è invece soffermato alle finestre, riflettendo sulle linee di visuale. Ha osservato con scrupolo lo spazio circostante e si è chiesto: «Chi ha visto cosa, chi ha ignorato?». Non era lì in lutto o in veste di turista, ma nel suo ruolo di investigatore. Laddove altri avrebbero potuto vedere Płaszów alla stregua di un luogo consegnato alla storia, Will ha analizzato una scena del crimine che rimane tuttora calda.

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È uno degli ultimi di una lunga serie di cacciatori di nazisti, a capo di un ufficio tedesco creato decine di anni fa per indagare sulle atrocità commesse in passato e rintracciare i complici dell’Olocausto, almeno quei pochi rimasti. A distanza di una vita dal crollo del Terzo Reich, molti dei sospettati che Will cerca di consegnare alla giustizia muoiono durante l’iter giudiziario. «Dopo che siamo riusciti a trovarli vivi e abbiamo trasmesso i loro casi ai pubblici ministeri… Le persone muoiono mentre sono sotto processo», mi ha raccontato. «In questo mestiere è diventato normale. Fa parte del nostro lavoro».

Mi ha ricevuto in un ufficio accogliente presso la sede della sua organizzazione nella città di Ludwigsburg, situata nella Germania meridionale. Will è un uomo dal viso gentile, con delle dita molto robuste, occhiali spessi e una zazzera di capelli neri che gli coprono la metà superiore di entrambe le orecchie. Si dice che uno dei suoi predecessori, in qualità di capo di questo ufficio, portasse con sé una pistola durante il lavoro. Lui, invece, ha una presenza più rilassata, è il tipo di capo che ti chiede cosa intendi ordinare per pranzo. Al polso porta un orologio d’argento che spesso tira fuori da sotto la manica di una giacca sportiva, quasi per ricordarsi di essere sempre in orario. Un indumento che gli ho visto indossare in varie tonalità e tessuti, come il velluto bordeaux o un più delicato tweed navy. Il pranzo preferito da Will è a base di Käsespätzle, un piatto di pasta al forno e formaggio cucinato bene nella vicina mensa governativa.

Di tanto in tanto interrompeva la nostra conversazione per rispondere con l’ausilio di un auricolare a un telefono fisso che squillava nell’ufficio: «Sì? Davvero?». L’edificio in cui eravamo seduti, alto e candido, un tempo era un carcere femminile. Il suo studio si trova al secondo piano ed è dominato da un grande tavolo da conferenza ovale; le pareti chiare sono abbellite da coloratissimi quadri astratti da lui stesso selezionati. Solo dopo qualche ora di intensa conversazione mi sono accorto di essere seduto di fronte al ritratto di un uomo nudo. Will ha sorriso quando ho trovato il coraggio di farglielo notare. Il nudo astratto era di un amico, mi ha spiegato. «Molte persone che vengono in questo studio sono concentrate su altre cose», ha detto. «Lei si è soffermato abbastanza a lungo da riuscire a vederlo». È così che Will affronta il suo ruolo di capo ufficio. Si siede e fissa il passato della Germania abbastanza a lungo da poterlo vedere.

L’ufficio, fondato nel 1958, è un’agenzia investigativa nazionale incaricata dal governo tedesco di setacciare il Paese e il mondo intero alla ricerca dei nazisti. Sul biglietto da visita di Will, particolarmente affollato di parole, il nome completo è “Ufficio centrale delle amministrazioni statali della giustizia per le indagini sui crimini nazionalsocialisti”, che in tedesco è ancora più ingombrante. Per comodità, viene chiamato “ufficio”, “ufficio centrale” o “unità”. Un po’ come una spia di Le Carré quando si riferisce all’MI5 come al Circus, Will usa un’espressione inglese insolita per il suo posto di lavoro: «La nostra casa». A proposito di una vecchia e rimpianta decisione di non portare avanti un caso promettente, dirà: «All’epoca, questa era l’opinione della nostra casa». Oppure: «Le faccio fare un giro nella nostra casa?».

Quando ho accettato l’offerta di fare un giro, mi ha condotto al piano inferiore dove siamo passati davanti agli uffici di una dozzina di colleghi, molti dei quali ex giudici e procuratori come lui. Una fila di ritratti affissi mostrava i suoi predecessori, compreso il penultimo, un uomo di nome Kurt Schrimm che all’inizio degli anni Duemila ha impresso una svolta all’unità ed è riuscito a invertire una tendenza pluridecennale di passività, volta a lasciare che i nazisti restassero dormienti, sfidando gli altri investigatori a riflettere sulla complicità e la colpevolezza di soldati e dipendenti a ogni livello di quel regime di morte. Will fu assunto sotto la guida di Schrimm nel 2003 e ha mantenuto la convinzione del suo ex capo di arrestare e mettere sottochiave chiunque era in grado di catturare finché sarebbe stato possibile. «La prossima generazione non avrà la possibilità di lavorare a livello giudiziario», mi ha detto. «Finisce in questi anni, ora, negli anni ’20 del duemila. Siamo di fronte all’ultima generazione di colpevoli. Perseguiamo gli ultimi crimini».

In pratica, Will e i suoi colleghi sono eredi di una solida tradizione di cacciatori di nazisti, anche se si differenziano per compiti e tecniche dai loro più spavaldi antenati. Negli anni ’60, Adolf Eichmann, uno degli architetti dell’Olocausto, fu rintracciato a Buenos Aires, dove viveva in segreto da padre sposato di quattro figli ed era conosciuto a livello locale sotto il nome di Ricardo. Gli agenti del Mossad che trovarono Eichmann lo hanno drogato per travestirlo e condurlo a processo in Israele.

Più tardi, nello stesso decennio, il comandante del campo Franz Stangl fu rintracciato in una fabbrica di automobili a San Paolo da Simon Wiesenthal, il leggendario sopravvissuto all’Olocausto che si era trasformato in un ricercatore di nazisti. Gli anni del dopoguerra sono stati ricchi di storie sensazionali e rocambolesche di nazisti consegnati alla giustizia. Quest’ultimo periodo di caccia è diverso. Più tranquillo. Più inquietante. Qualunque sia stato il nobile brivido di cui ha goduto chi ha dato la caccia a Eichmann, Amon Göth e agli altri folli criminali dei campi di concentramento, non è arrivato fino a Will, costretto a inseguire persone che forse non si sono mai considerate naziste. I suoi bersagli nel mirino si muovono ormai con l’ausilio di bastoni o sedie a rotelle. Le possibilità di fuga sono praticamente escluse, a parte una sorprendente eccezione.

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Ci siamo trovati davanti a un’enorme mappa, dalle dimensioni di una tovaglia, che mostrava il Terzo Reich all’apice del potere e della sua crudeltà. «Vede quanti campi c’erano?», mi ha fatto notare Will.

«Ogni punto blu?», gli ho chiesto. Rappresentavano circa 44.000 campi di concentramento, campi di sterminio, sottocampi e altri luoghi di prigionia sparsi in una zona di orrore continentale.

«Sì».

I pannelli di linoleum cigolavano sotto i nostri piedi mentre ci addentravamo nell’edificio, finché non siamo entrati in un archivio chiuso a chiave e arredato da parete a parete con schedari grigi. Will e il suo gruppo si occupano soprattutto di nomi. Vogliono i nominativi di tutti coloro che hanno lavorato all’interno o per uno tra le migliaia di campi nazisti presenti sulla mappa. Nuovi nomi saltano fuori in continuazione, anche oggi, a causa della mole di documenti accumulati sotto il meticoloso regime di Hitler. Will mi ha confidato che nel suo archivio aveva una quantità babelica di fascicoli mai letti. Altre massicce tranche di prove erano state disperse in tutto il mondo, dai nazisti in fuga o dai soldati liberatori. Per questo motivo, ha trascorso tanto tempo in archivi polverosi a Buenos Aires, Washington DC, Londra, Ottawa e Minsk. Ha fatto almeno una dozzina di viaggi di ricerca a Mosca prima che l’invasione dell’Ucraina nel 2022 ponesse fine al suo impegno. Di recente, ha visitato Gerusalemme. Quando gli ho chiesto com’è andata, mi ha risposto: «Sono tornato con dei nomi», intendendo dire che è andata bene.

Nella loro caccia, Will e i colleghi leggono buste paga, note di malattia, richieste di spesa, fatture di uniformi ed equipaggiamenti, medaglie, memoriali, registri degli appelli, ordini di trasferimento, liste di promozione, manifesti di passeggeri e passaporti. A volte chiedono ai governi stranieri di rendere pubblici i rapporti riservati delle spie. Cercano di scoprire quali tedeschi sono emigrati e dove sono andati dopo la guerra, soprattutto se tali spostamenti destano sospetti. Dopo avere trascorso un’infinità di ore a raccogliere prove e letto caterve di documenti che descrivevano con dovizia di particolari il genocidio, Will ha dichiarato di non sentirsi per nulla scosso: «Forse è una deformazione professionale». Una volta è volato a Canberra, in Australia, per esaminare dei vecchi fascicoli provenienti da un campo di sterminio nazista. Ne scelse uno a caso e nell’aprirlo scoprì che era pieno di capelli umani. Will si è sentito mancare il respiro e perfino ora il ricordo lo turba. «Non ero preparato a una sorpresa del genere».

In compenso è tornato dall’Australia con dei risultati, così come dalla Polonia e dalla Svezia. Ogni volta che scovano un nuovo nome, Will e i suoi colleghi (il Bureau impiega circa otto investigatori alla volta), si trasformano da storici in investigatori. Consultano gli indici delle tombe per capire se il nuovo nominativo appartiene a una persona viva o morta, visto che la maggior parte è defunta. Chiamano gli enti pensionistici, le compagnie di assicurazione, gli uffici di immatricolazione, gli studi genealogici, la Croce Rossa, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e l’Interpol.

Dall’epoca di Schrimm, il riformatore a capo del Bureau, gli investigatori hanno cercato di definire meglio e chiarire le dimensioni della responsabilità del massacro rappresentato dall’Olocausto. La tendenza è stata quella di ampliare la portata di quel crimine: «Allargare il cerchio», ha specificato Will, mentre spostava una bustina di zucchero e una tazzina di espresso vuota rimasta sul tavolo da conferenza. Eravamo di nuovo al piano di sopra, nel suo ufficio.

A fini dimostrativi, la tazzina rappresentava l’omicidio di massa e lo zucchero indicava i confini della colpevolezza criminale. Ha spostato lo zucchero di un centimetro dalla tazza, poi di due, tre e quattro. Dove finiva la responsabilità degli omicidi? Qui, a un centimetro, con Hitler e i suoi generali? Qui, a due centimetri, con i comandanti dei campi, i medici, i boia? Qui, a tre centimetri, con i funzionari militari come le guardie? O qui, a quattro centimetri, con i funzionari non militari, i segretari, i telefonisti e così via?

La questione è estremamente attuale e urgente in Germania, perché a questo punto sono rimasti in vita solo i funzionari, le guardie, i segretari e tutti quei giovani nazisti appena usciti dall’adolescenza quando il regime è crollato. Dopo avere vissuto così a lungo, in un’epoca in cui domina un forte rimorso nazionale per il passato, vengono additati per scaricare il senso di colpa che tuttora perdura.

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Di recente, per la prima volta nella storia della Germania, una dipendente civile di un campo nazista è stata processata con l’accusa di essere stata complice di un omicidio di massa. Will era riluttante a farne il nome, tanto considera importante il riserbo verso la procedura giudiziaria per salvaguardare il lavoro del Bureau. «La dattilografa», continuava a chiamarla, riferendosi a una donna che il resto della Germania conosceva come Irmgard Furchner o die Sekretärin des Bösen, la segretaria del diavolo.

Le indagini iniziate in questo ufficio hanno dato luogo a processi piuttosto singolari: un’anziana ex guardia dei campi di concentramento è stata condotta in tribunale su un lettino d’ospedale. Nessuno, però, è stato così strano come il caso Furchner, passato in giudizio l’inverno scorso. All’epoca in cui lavorò per i nazisti, Irmgard era un’adolescente. Quando è stata incriminata come complice di un omicidio di massa, aveva 90 anni; è stato necessario prendere precisi accordi precauzionali per portarla dalla sua casa di riposo al tribunale con un furgone in grado di accogliere una sedia a rotelle.

L’inizio del processo era previsto per il settembre 2021. Il tribunale locale era considerato troppo piccolo in rapporto al clamore che l’udienza Furchner avrebbe suscitato, così il giorno stabilito gli osservatori di tutto il mondo si sono recati in un tribunale temporaneo, allestito all’occasione in un magazzino tra un pascolo di pecore e l’autostrada n. 23 di Amburgo. Erano presenti alcuni rappresentanti dei sopravvissuti all’Olocausto, diplomatici in visita e una marea di giornalisti.

L’aula del tribunale era stata completamente ristrutturata per il processo, con tanto di nuove pareti dipinte di fresco. Era stata cablata per l’audio, forse a causa delle difficoltà uditive dell’accusata. La donna si sarebbe dovuta comodamente sedere in aula, circondata da schermi di plexiglas utili a impedire la trasmissione di COVID, affiancata da un’infermiera e dai suoi avvocati. L’idea era questa. All’inizio del primo giorno del processo, però, fu subito evidente che qualcosa andava storto. Il tavolo di Irmgard Furchner era vuoto. Il giudice accese il microfono e avvertì i presenti: «Die Angeklagte ist flüchtig». L’imputata è in fuga.

Per ricostruire l’accaduto ci è voluto un po’ di tempo. La mattina presto, prima dell’arrivo del furgone della polizia alla casa di riposo dov’era ricoverata per portarla in tribunale, la donna ha lasciato la struttura in taxi raggiungendo una stazione della metropolitana di Amburgo. Da lì si è recata ad Amburgo, dove le forze di polizia comunicavano internamente via radio alle loro unità i dati della fuggitiva: una donna novantenne; capelli bianchi; mobilità precaria; ricercata come complice di un omicidio di massa.

Furchner non ha rilasciato dichiarazioni per questo articolo, su consiglio del suo legale Wolf Molkentin. I giornalisti che cercano di avvicinarla vengono respinti dal personale della casa di cura. Avrei voluto chiedere all’imputata: perché quel giorno ha deciso di scappare via? Il suo avvocato, Molkentin, ha accettato di incontrarmi e ha spiegato che Furchner non intendeva sottrarsi alla giustizia ma aveva un preciso scopo: «Non voleva assistere al processo, così è andata ad Amburgo e ha atteso di essere arrestata. Era un gesto di… come dire? Ribellione è troppo forte. Forse era un modo per esprimere il suo disappunto». La polizia di Amburgo l’ha arrestata mentre passeggiava in strada e l’ha tenuta cinque giorni in cella, finché Molkentin non è riuscito a ottenerne il rilascio. Da allora, porta un dispositivo di localizzazione.

Dopo diverse settimane di ritardo, il giorno in cui è ripreso il processo Furchner i manifestanti di un gruppo neonazista si sono presentati fuori dal tribunale per mostrare il proprio sostegno. A loro volta, si sono riuniti gli antifascisti. All’interno, le è stato letto l’atto d’accusa: era chiamata a rispondere a un’imputazione di favoreggiamento per l’omicidio di 11.387 donne, uomini e bambini; in altre parole, era ritenuta corresponsabile della morte di ogni persona di cui era stata accertata la scomparsa durante il suo impiego nel campo di concentramento.

Il campo in questione era un luogo chiamato Stutthof. Will e io lo individuammo sulla sua mappa gigante: un remoto punto blu nell’angolo nord-orientale del territorio nazista, vicino al Mar Baltico e a quella che oggi è la città polacca di Danzica. Non era il più grande né il più letale dei campi, ma Stutthof fu descritto da un sopravvissuto che era passato anche da Auschwitz come il più crudele. Fu costruito nel 1939 e nel 1942 aveva in prigionia decine di migliaia di ebrei europei. Mentre Will e io guardavamo la posizione del luogo sulla mappa, erano passati quasi 80 anni da quando Furchner era arrivata a Stutthof per iniziare il lavoro di dattilografa.

Era il 1943, l’anno in cui una sezione della recinzione di Stutthof fu elettrificata e la superficie del campo venne ampliata per ospitare un forno crematorio. Delle 64.000 persone che alla fine avrebbero perso la vita, alcune furono spinte alla morte con l’inganno, fatte salire su un treno in apparenza normale e poi gassate, oppure fu ordinato loro di rimanere ferme per essere misurate prima di ricevere a tradimento un colpo di fucile alle spalle. La maggior parte perì nelle baracche a causa di malnutrizione o malattia.

Irmgard Furchner era diciottenne quando arrivò lì. Aveva già avuto un impiego nelle vicinanze, presso una banca del suo villaggio natale, e sapeva dattilografare. Una fotografia di quel periodo mostra una giovane donna pallida che indossa un abito scuro e sorride mentre posa davanti all’edificio amministrativo dalle pareti in mattoni dove lavorava ogni giorno.

Furchner riceveva ordini dal comandante del campo, Paul-Werner Hoppe, un uomo che decideva e coordinava le esecuzioni sul posto. A volte scriveva dei memorandum ai suoi sottoposti, in cui mescolava cose orribili ad altre di ordinaria quotidianità. In uno di questi, annunciava con gioia la promozione di un collega e nella stessa pagina dattiloscritta, come se fosse un altro punto all’ordine del giorno, suggeriva il tipo di vagoni da usare per trasferire i prigionieri ad Auschwitz.

«Pensare che questi campi fossero anche dei comuni luoghi di lavoro è l’aspetto più assurdo e straziante», mi ha detto un reporter di nome Florian Kleist. Biondo e giovanile, sulla quarantina, Kleist è un reporter che scrive per un gruppo di giornali locali di Amburgo. Negli ultimi anni ha studiato da vicino Furchner. «I campi erano luoghi in cui la gente si innamorava o rimaneva incinta», ha aggiunto. «Erano spazi in cui si spettegolava e si creavano rivalità. Normali questioni di lavoro! Ma a 50 metri dalla recinzione, i prigionieri congelavano, morivano di fame, venivano portati a morire di gas».

Nella primavera del 1945, quando la rete dei campi nazisti iniziò a essere smantellata, molti dei prigionieri rimasti vivi a Stutthof furono fatti marciare verso ovest, lontano dalla liberazione che stava arrivando con l’avanzata della Russia da est. Alcuni furono annegati nel Baltico in navi deliberatamente affondate. Secondo le prove oggettive presentate durante il processo, Furchner fu una delle ultime dipendenti ad abbandonare Stutthof prima della sua chiusura. Aveva davanti una precisa prospettiva di vita: un matrimonio, dopo aver conosciuto un ufficiale delle SS impiegato nel campo, un uomo di nome Heinz. A metà degli anni Cinquanta i due sposi hanno messo radici in una città del nord della Germania chiamata Schleswig, presumibilmente desiderosi di lasciarsi il passato alle spalle.


Furchner ha continuato a lavorare nel settore amministrativo, anche se in un ospedale. Secondo quanto dichiarato in tribunale, si dice che fosse una dattilografa straordinariamente veloce, cosa che i suoi colleghi dell’ospedale non avrebbero mai creduto. I Furchner hanno vissuto in un condominio di mattoni all’interno di un appartamento con un balcone. L’esistenza della coppia è durata nel tempo, fino alla morte di Heinz. La donna andò in pensione e nel 2014 si è trasferita da sola in una casa di riposo, dopo avere scelto un luogo ai margini di un villaggio già di per sé periferico, chiamato Quickborn.

Un giorno sono andato a visitare la struttura. È un modesto complesso di siepi, recinzioni di ferro e bungalow dipinti di giallo, incastonato sotto un alto muro grigio che attutisce in parte il rombo della vicina autostrada. Ero lì con Florian Kleist e dopo avere fatto il giro del giardino sul retro, abbiamo notato il punto in cui la casa di cura era addossata al grande muro dell’autostrada. La situazione mi ha fatto pensare a quei gangster paranoici che si dice sedessero con le spalle al muro dei ristoranti per riuscire a vedere chi entrava, nel timore di sorprese indesiderate.

Durante il periodo in cui il suo caso fu dormiente, Furchner è stata talvolta oggetto di interrogatori da parte di diversi dipartimenti giudiziari tedeschi che volevano informazioni su quanto era accaduto a Stutthof durante la guerra. Interrogata formalmente negli anni Cinquanta, Sessanta e Ottanta, è stata incoraggiata a credere di non avere commesso nulla di penalmente rilevante, un’idea che può essere stata rafforzata da alcune punizioni sorprendentemente leggere inflitte ai suoi superiori. Hoppe, il comandante di Stutthof, fu trovato nascosto in Svizzera dopo la guerra. Lavorava lì come giardiniere. Processato in Germania, fu condannato a nove anni di prigione.

Hoppe morì negli anni ’70 da uomo libero. Aveva condannato a morte migliaia di persone senza alcuna remora, in modo rapido e per iscritto. Una macabra concatenazione di eventi cosmici gli ha permesso di essere processato in un’epoca di incomprensibile clemenza. I primi decenni del dopoguerra hanno fatto da sfondo ad alcune storie emozionanti di nazisti braccati, impiccati, imprigionati: da Eichmann in Argentina, fino Stangl in Brasile. Al contempo, sono stati anche anni di timide sentenze, di ritardi incredibili, di un atteggiamento del tipo “non abbiamo ancora finito?” che sembrava esprimere il desiderio diffuso di chiudere con il passato.

In modo pacato, attraverso un evidente eufemismo, Will mi ha descritto questa situazione come «il non lavoro delle generazioni passate». Tuttavia, ha ammesso che nel deplorare la compiacenza investigativa e giudiziaria dei suoi antenati, l’ha anche un minimo compresa. «Era un’altra società, in parte colpevole», ha sottolineato con un’alzata di spalle. Poi, circa 20 anni fa, il Bureau ha iniziato ad ampliare progressivamente lo spettro della colpevolezza dell’Olocausto. Ha convinto i tribunali regionali a perseguire segmenti sempre più piccoli della macchina di sterminio nazista, incoraggiato da ogni processo andato a buon fine ad andare oltre: ora guardie, poi contabili e dattilografi.

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L’indagine sul periodo trascorso da Irmgard Furchner a Stutthof è iniziata presso il Bureau nel 2016. Il suo nome era già in archivio perché decenni prima aveva testimoniato al processo del comandante Hoppe. In seguito, hanno dovuto convincere l’ufficio del procuratore a incriminarla formalmente, cosa che è avvenuta nel 2017. Fu allora che due poliziotti in uniforme e un procuratore si presentarono alla casa di cura e trovarono Furchner nel letto della sua stanza, mentre guardava la televisione. Quella mattina trasmettevano talk show sui principali canali terrestri tedeschi, oltre a repliche doppiate di Mike & Molly e The Big Bang Theory. Durante la perquisizione da parte dei poliziotti, il pubblico ministero informò la donna che avrebbe dovuto affrontare il processo. Secondo una testimonianza successiva, lei reagì dicendo che era lächerlich, ridicolo, e in seguito scrisse una lettera al giudice, informandolo che non avrebbe partecipato al processo per risparmiarsi «l’imbarazzo».

Il processo è iniziato nell’autunno del 2021, dopo che Furchner non si era presentata alla prima udienza e aveva trascorso cinque notti in cella. A parte alcune sporadiche lamentele per il malfunzionamento dell’impianto audio, qualche “sì” o “no” quando il giudice si informava sulla sua salute e la capacità di continuare, la voce dell’imputata si è fatta sentire di rado durante i 14 mesi del dibattimento. È stato invece il suo avvocato Wolf Molkentin a prendere la parola per difenderla. Molkentin ha sostenuto una tesi basata sull’immagine di una giovane donna del Terzo Reich tenuta al riparo dai veri propositi di Stutthof grazie all’intermediazione dei superiori. Uomini che notoriamente amavano definirsi sofisticati e usavano termini come «trattamenti speciali», mai gasazione, e «evacuazioni», al posto di marce della morte.

A un certo punto, Molkentin ha citato uno dei più biechi personaggi del XX secolo, Heinrich Himmler, sul tema dell’eufemismo nazista. Mi ha riferito che non si sarebbe mai immaginato nel ruolo di difensore di una persona accusata di crimini nazisti, e tanto meno di citare Himmler a voce alta. Quando fu contattato da una procura regionale e gli fu chiesto se avrebbe difeso Furchner, Molkentin si disse: «Io no. Non se ne parla». Ben presto, però, cominciò a riflettere su quale tipo di avvocato avrebbe potuto accettare l’incarico se professionisti come lui avessero detto di no. Molkentin era particolarmente turbato dalla prospettiva di un «qualche avvocato di destra» pronto a usare il processo come un palcoscenico da cui amplificare le peggiori frange della cultura popolare reazionaria: cospirazionisti, negazionisti e negatori dell’Olocausto. Quando accettò di prendere Furchner come sua cliente, decise di autoimporsi una serie di vincoli di comportamento promettendo a sé stesso che avrebbe seguito in ogni occasione uno stile procedurale basato su standard legali rigorosi per rendere il processo importante e a prova di storia.

Durante il processo, Molkentin andava spesso a passeggiare nei boschi «cercando di non pensare troppo», mi ha confessato. Non ha nascosto di apprezzare il lavoro di Will al Bureau di Ludwigsburg, e ha aggiunto di ritenere la Germania un paese particolarmente adatto a svolgere in tutto il mondo il ruolo di portabandiera contro il nazionalismo e la guerra. «Ho sempre ritenuto che il popolo tedesco abbia il merito o il vantaggio di potersi opporre a certe tendenze in virtù della propria storia», ha dichiarato. «In Germania possiamo dire di sapere dove porta tutto questo».

Ha ricevuto tantissime lettere piene di odio a causa della sua posizione in difesa di Furchner. «Lettere che mi arrivano fino a qui», mi ha detto, alzando la mano all’altezza delle spalle. «Un messaggio di una donna ebrea americana diceva che ero un sadico e uccidevo le vittime una seconda volta. Come avrei potuto accettarlo? Sarei stato in grado di dormire?». La questione del sonno è emersa spesso durante il processo Furchner. Nel tentativo di descrivere tutto lo squallido orrore di Stutthof, gli avvocati dell’accusa hanno invitato i sopravvissuti a testimoniare. Le persone hanno rievocato il loro terrore, la fame, i cani che abbaiavano, i focolai di tifo nelle baracche sudice che erano il risultato di un’incuria volontaria e quasi altrettanto letale di un proiettile o di una pallina di gas Zyklon B.

Josef Salomonovic aveva sei anni quando arrivò al campo in un vagone bestiame. Suo padre fu ucciso nell’infermeria: gli fu iniettato del veleno nel cuore. Salomonovic ha riferito alla corte di avere ancora incubi a causa di questo crimine. Un’altra figlia del campo, Halina Strnad, ha raccontato di avere visto una detenuta incinta morire durante il travaglio. Il bambino era nato morto. In qualche modo la piccola Strnad ha dovuto sbarazzarsi del corpo, cosa che cercò di fare nelle latrine del campo. La donna ha aggiunto alla corte di soffrire tuttora di gravi disturbi del sonno.

Salomonovic ha testimoniato di persona contro Irmgard Furchner, portando al banco dei testimoni una fotografia del padre assassinato. Quanto ad Halina Strnad, si è rivolta alla corte in collegamento video dalla sua casa australiana. Uno dei punti principali della difesa di Furchner è stato che lei non era a conoscenza di alcuna uccisione effettiva nel campo. «Non riesco a immaginare come sia stato possibile non sapere cosa stesse accadendo», ha ribattuto Strnad. «C’era una costante puzza di cadaveri bruciati». Non molto tempo dopo avere pronunciato queste parole alla corte, Halina morì all’età di 92 anni. Non è vissuta abbastanza per ascoltare il verdetto che è stato raggiunto nel dicembre 2022, quando Furchner è stata dichiarata colpevole per quasi tutti gli 11.387 capi d’accusa, in attesa dell’appello.


Will e io abbiamo attraversato la Germania in treno verso nord, fino alla città universitaria di Magonza. Era stato invitato lì a parlare delle sue tecniche investigative a un gruppo di studenti di giornalismo. Per l’occasione indossava un tweed blu scuro e la borsa di pelle nera si abbinava bene alle scarpe.

Avevamo a disposizione uno di quegli scompartimenti a porte chiuse che in Europa rendono così seducenti i viaggi in treno. L’intimità della carrozza ha incoraggiato Will ad aprirsi sulla propria vita. Parlò dei figli, due medici e un avvocato, e della sua squadra di calcio, il Nürnberg, con sede a Norimberga dove Will ha trascorso parte della giovinezza. Quando gli ho chiesto che effetto gli ha fatto essere un giovane in quella città resa tristemente famosa dai raduni nazisti e poi di nuovo rinomata come sede dei processi alleati, dove i membri dell’alto comando del regime hanno incontrato il patibolo, Will ha risposto: «Per me la storia è sempre stata presente. Mi affascinava, non ne ero ammirato, ma volevo capire cosa fosse successo e perché sia potuto accadere. In fondo questa è stata la spinta emotiva e ideale che mi ha indotto a venire a Ludwigsburg».

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La maggioranza degli investigatori che approdano all’ufficio di Ludwigsburg ci arrivano in seguito a una riassegnazione da altri posti di lavoro nella magistratura. Si fermano due o tre anni svolgendo il ruolo di detective sulle tracce di anziani nazisti, prima di tornare alle loro precedenti carriere. Quelli con cui ho parlato riguardo alle ragioni che li hanno spinti a fare domanda per lavorare nell’ufficio di Will, hanno espresso una sorta di livido stupore nei confronti dell’oscuro passato della Germania e il desiderio di comprenderlo meglio, dal fronte o da quanto ne rimaneva. Quando Will arrivò, aveva lasciato la cattedra di giudice a Dessau. Non ci tornò mai più.

Ha trascorso, invece, i suoi primi anni al Bureau a indagare sui crimini di guerra commessi dai tedeschi in Italia. La penisola italiana divenne il bacino d’azione di Will. Cercò di risolvere l’omicidio di alcuni parenti di Albert Einstein, uccisi nel 1944 dalle truppe naziste in una villa fiorentina. Si occupò del caso di un agente delle SS sotto copertura che si era infiltrato e aveva tradito un gruppo di partigiani italiani. Mentre era in Italia, ha assistito al processo di un ex soldato tedesco accusato di avere giustiziato dei civili italiani. «Ho avuto l’occasione di ascoltare la testimonianza di una signora anziana che mi ha riferito come i membri della sua famiglia fossero stati fucilati e uccisi durante questo efferato eccidio», ha ricordato Will. «Lei è sopravvissuta solo perché si è sdraiata sotto i cadaveri». Durante una pausa del processo, la signora gli ha svelato che non le importava molto se l’accusato fosse stato condannato o meno, né se avesse trascorso del tempo in prigione. Desiderava solo che la storia «finisse in modo equo e legale». Lui non l’ha mai dimenticato: una fine equa e legale.

Il nostro treno per Magonza si muoveva lentamente attraverso una foresta. Più tardi si è fermato in prossimità di un campo di asparagi. Sembrava che fossimo in ritardo rispetto alla tabella di marcia. Quando un annuncio del capotreno lo ha confermato, Will consultò il suo orologio da polso e fece una smorfia. Controllò a che ora avrebbe dovuto parlare agli studenti. «Si fa quel che si può», concluse senza rivolgersi a nessuno in particolare, «e a volte arriviamo troppo tardi». Avrebbe potuto essere un motto adatto al suo lavoro di detective di mezza età. Se i processi erano una sorta di antidoto all’atrocità, un unguento che avrebbe alleviato il dolore della società, perché lo Stato tedesco aveva impiegato così tanto tempo prima di richiamare i suoi vecchi nazisti alle proprie responsabilità? Fu la prima domanda che gli venne posta quando arrivò a Magonza.

Gli studenti in ascolto si chinavano in avanti sui loro banchi e interrogavano Will con un incredibile profondità. Lui è stato all’altezza della situazione offrendo risposte schiette, laddove ha potuto. Gli è stato chiesto di parlare degli obiettivi delle sue indagini, tra cui Furchner, che sono stati giudicati colpevoli di crimini legati all’Olocausto, anche se in seguito hanno fatto appello alle loro condanne. «Si appellano perché sostengono di non essere stati loro?», ha domandato qualcuno. «O lo fanno perché sono convinti di non avere combinato nulla di male? Le persone si siedono mai davanti al giudice e ammettono: “Ho davvero commesso un’atrocità”?».

Will non portò nemmeno un solo esempio di qualcuno che abbia saputo riconoscere le proprie colpe. Descrisse, invece, una tendenza alla negazione e all’oblio, soprattutto tra gli imputati anziani che avevano ormai 80 o 90 anni quando comparivano davanti a un giudice. Potrebbe «essere uno shock per la loro intera visione del mondo», spiegò, rendersi conto che gli standard erano cambiati e il loro ruolo marginale era diventato un reato grave, qualcosa di mostruoso. La storica tedesca Simone Erpel intervistò una volta le ex guardie dei campi di concentramento e fece una curiosa osservazione: erano in grado di citare i nomi dei cani presenti, Rex, Kastor, Satan, ma non rammentavano quello di nessun prigioniero. Secondo quanto dichiarato in tribunale, Irmgard Furchner affermò una volta di non ricordare neppure uno dei documenti che aveva dattiloscritto per il comandante del campo. Forse qualche ordine di forniture per il giardinaggio.

Una studentessa di Magonza, la chiameremo Sabrina, ha posto una domanda molto acuta a Will. È mai successo che qualche discendente scoprisse cosa avevano fatto i loro parenti ancora in vita durante la guerra e poi informassero l’ufficio di Ludwigsburg?

«Capita», ha risposto Will.

In quel momento, probabilmente, tutti noi abbiamo ricordato i nostri nonni. Io lo feci. Pensai a come, poco prima di lasciare casa in Inghilterra per volare in Germania a incontrare queste persone, mia nonna ebrea di 95 anni mi avesse chiesto: «Sarai al sicuro?». Anche se non ero d’accordo sul presupposto implicito nella domanda, l’ho rassicurata che l’era di Hitler e dei nazisti era finita da un pezzo e il tedesco medio non era più antiebraico di lei, però ho capito da dove veniva la sua ansia. Il capitolo fascista della Germania è stato breve, forse è durato una dozzina di anni dalla genesi al crollo finale, ma la coda di quell’epoca è lunga, spinosa e si estende fino a colpire le persone di oggi. Nella mia famiglia ci sono figli e nipoti di vittime dell’Olocausto. L’argomento viene fuori durante le cene. A volte ne discutiamo anche ai picnic.

Al termine del seminario, Will se n’è andato dall’università insieme ad alcuni docenti e studenti per mangiare qualcosa. Così mi sono accodato a Sabrina, che ha rievocato sua nonna, una ragazza negli anni ’30, sempre affamata. Fu tentata di entrare nella Gioventù Hitleriana per avere da mangiare, specificò Sabrina. Alla fine, ha scelto di fare l’infermiera e quella è diventata la sua storia. Avrebbe potuto essere diversa.

Salva casaStop procedura esecutiva

Fu durante quello stesso viaggio a Magonza che proposi a Will di pensare a un’ipotesi alternativa. Sul treno gli ho chiesto: «E se fosse nato qualche decennio prima?». Se l’esercito di Hitler lo avesse arruolato e mandato a lavorare in un campo di concentramento simile a Stutthof? Sarebbe andato? Sarebbe rimasto?

«Non lo so», ha risposto mentre guardava il paesaggio fuori dal finestrino.

Ci sono molte persone in Germania convinte che i sostenitori marginali del regime nazista, gli anziani complici come Furchner, debbano essere lasciati in pace. Quale scelta avevano all’epoca?

Non sarebbero stati condannati a morte se avessero rifiutato di collaborare? Will e altri hanno evidenziato che solo i detenuti nei campi erano soggetti a pena capitale nel caso si fossero opposti ai compiti necessari a rendere operativi quei luoghi. La stragrande maggioranza delle guardie dei campi, fino al 95 per cento, secondo lo storico Stefan Hördler, poteva optare per il servizio militare. Al contempo, le impiegate femminili dei campi erano sempre considerate civili, pertanto avrebbero potuto scegliere di lavorare altrove, ha dichiarato Hördler. Quando Furchner fu interrogata nella sua casa di cura nel 2017, disse: «Mi hanno convocata e sono dovuta andare». Se all’epoca le fu detto che il suo impiego a Stutthof era obbligatorio, le mentirono. Dopo essere arrivata lì è rimasta in quel luogo e così ha fatto una scelta, ritiene Will.

«Penso che la differenza consista nel fatto che dopo essere stato mandato in un campo uno ci sia rimasto», ha sentenziato sul treno fuori Magonza. Ha distolto l’attenzione dal finestrino. Quando era giudice a Dessau, mi disse, dal suo tribunale passava ogni tipo di individuo. Assassini. Delinquenti. C’era un uomo accusato di avere violentato un pony. Quel processo si basava su prove video. «Per me non è stato un bel film da guardare», ha commentato Will. «Dentro di noi c’è la stessa natura di tutti gli altri esseri umani. Durante la guerra, quando arrivava una nuova guardia in un campo, magari all’inizio si stupiva. Molti erano gentili con i prigionieri. Poi, dopo poco, diventavano feroci. Il contesto ti trasforma. I colleghi ti influenzano. Persone cordiali e innocue diventano capaci di uccidere. Non è incredibile? Che possa capitare a persone normali, normali come noi due?».

Durante il servizio sul processo Furchner, Florian Kleist aveva portato con sé la figlia maggiore per assistere ad alcune fasi del dibattimento. Kleist voleva che capisse un po’ meglio il proprio Paese e, di fatto, la nostra specie. Il caso Furchner ha stravolto il suo modo di pensare sull’Olocausto, mi ha detto Kleist, perché è riuscito finalmente a dare un senso al numero di persone che i nazisti hanno ucciso in soli 12 anni di potere. «Questo genocidio non è stato eseguito in modo così efficiente a causa dei folli che stavano al vertice», ha concluso. «Era efficiente perché ogni giorno, migliaia di tedeschi come la signorina Furchner andavano in ufficio e svolgevano il loro dovere. Perciò sono andati tanto avanti. Questo genocidio. Era così… così ordinario». Sperava che il suo caso avrebbe potuto lasciare una nuova traccia sul passato: anche le persone comuni vi avevano partecipato. Sperava che avrebbe mandato un messaggio diverso al futuro: anche le persone comuni potevano fare una cosa simile.


Will e io eravamo riuniti nel suo ufficio a discutere sul futuro, quando si alzò dal tavolo, sollevò un po’ i pantaloni per la cintura e annunciò che era arrivato il momento di uscire a mangiare il Käsespätzle. Era una frizzante giornata di primavera: i denti di leone erano appena spuntati. Ci siamo recati alla sua caffetteria preferita e trovammo una fila di circa 100 impiegati statali affamati che avevano avuto tutti la stessa idea. «Alla gente piace mangiare i Käsespätzle», osservò Will. Mi ha portato in un altro posto dove servivano panini e lenticchie all’aceto. Ci siamo seduti in mezzo a poliziotti in uniforme. Un caso contro un altro anziano nazista era recentemente crollato dopo mesi di lavoro, mi confessò Will quel giorno. L’accusato, 99 anni, ex guardia di un campo chiamato Ravensbrück, era morto proprio quando stava per iniziare il procedimento giudiziario preliminare.

«Pensavo si potesse arrivare al processo, ma non è stato così», si rammaricò Will scuotendo la testa. «Non sono privo di emozioni. Rimugino tra me e me: “Oh, che peccato!”. Ma questo non aiuta. Non serve a nulla». Era d’accordo con la mia suggestione; poteva essere perfettamente possibile che Irmgard Furchner risultasse essere l’ultima persona processata per crimini nazisti. Sperava di no. All’ufficio avevano passato del tempo a indagare su un novantasettenne che faceva la guardia al campo di Neuengamme. Il caso era attualmente all’attenzione di un pubblico ministero. C’erano altri quattro casi attivi che si muovevano lentamente verso i tribunali regionali, anche se gli imputati coinvolti avevano tra i 98 e i 101 anni e in qualsiasi momento uno o l’altro di loro poteva morire condannando l’indagine agli archivi, messa tra le migliaia di investigazioni sospese. Will era abituato a questo aspetto del lavoro, ribadì. Fin dall’inizio dell’incarico al Bureau aveva sperimentato la recisione forzata di molti fili pendenti. C’era stato l’ex soldato che gli aveva scritto una lettera per protestare la sua innocenza e poi si era sparato con una vecchia pistola d’ordinanza. C’erano gli emigrati tedeschi ricercati che vivevano in una tranquilla pensione in Minnesota, Pennsylvania e Tennessee, ognuno dei quali è morto prima di poter essere estradato. La prima volta che ho incontrato Will, mi sono chiesto perché mai lui e i suoi colleghi continuassero a impegnarsi così tanto in un contesto sempre meno stabile. Erano bloccati in uno dei più strani vicoli ciechi della storia, diretti verso un muro alla fine di una strada visibilmente senza uscita che di giorno in giorno si avvicinava minaccioso. Ora ho capito che il senso stava nello sforzo. Il loro lavoro è un segnale importante. Dovrebbe essere notato da coloro che possono commettere crimini di guerra, ora o in futuro. È un avvertimento rivolto a quanti si lasciano vivere, la prova che un assassinio può essere sia passivo sia attivo, causato dalla guardia a un cancello o dal battere i tasti di una macchina da scrivere.

Il lavoro svolto nell’ufficio di Will è una dichiarazione silenziosa e nobile da mettere agli atti e non dimenticare mai: se imprigioni degli innocenti, contribuisci a uccidere i loro padri o bambini, un giorno qualcuno da qualche parte si siederà in una stanza e setaccerà un milione di file per conoscere il tuo nome. Il lavoro è un nodo in un fazzoletto, un post-it giallo brillante sul muro, una sveglia dello smartphone impostata per tintinnare in continuazione. Durante il processo Furchner, il defunto scrittore Milan Kundera ha parlato della «lotta della memoria contro l’oblio»; in altre parole, di come i bastardi vincano solo se noi ricordiamo male o dimentichiamo i loro crimini. Nel Bureau di Will lavorano contro l’oblio, mantengono viva la lotta.

Quando l’ultima persona nel suo mirino morirà e tutti i casi saranno archiviati e freddi, la squadra di Will si scioglierà. Il loro edificio potrebbe diventare un museo, ha supposto. Presto avrebbe ricevuto la visita di un assistente ministeriale della capitale tedesca che lo avrebbe aiutato a decidere le prossime mosse. Will ha detto che tali decisioni erano di competenza di altri, al di sopra della sua testa. Aveva ancora del lavoro investigativo da fare. Di recente erano arrivati sulla sua scrivania nuovi indizi, un’inaspettata taglia tardiva, qualcosa come 2.500 nomi di persone che un tempo ricevevano lo stipendio da un conto di risparmio collegato al campo di Ravensbrück. Alcuni di loro, sicuramente, devono essere ancora vivi.



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