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La vicenda trae origine da un procedimento di separazione giudiziale instaurato innanzi al Tribunale di Siracusa, il quale accoglieva la domanda di mantenimento formulata dalla moglie P.G., nel proprio interesse e nel di lei figlio, rigettando di contro le domande di addebito avanzate da entrambi i coniugi.

Avverso il rigetto della domanda di addebito P.G. proponeva appello ribadendo la circostanza di avere subito comportamenti violenti posti in essere dal coniuge D.R.S. in costanza del rapporto.

Si costituiva il D.R.S. chiedendo il rigetto del gravame.

La Corte d’Appello di Catania confermava la decisione del Tribunale in ordine alla domanda di addebito, polarizzando la motivazione sulla mancanza di una prova certa sul compimento di comportamenti di violenza allegati in primo grado, stante “la mancata indicazione di fatti specifici e concreti di atti di violenza” nonché “l’assenza di elementi documentali ovvero di deposizioni di soggetti estranei al contesto familiare confermativi della pretesa condotta violenta”.

P.G. proponeva ricorso in Cassazione deducendo in particolare l’errata ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito con correlativa vulnerazione del principio in forza del quale l’interpretazione della domanda va colta alla luce di tutte le allegazioni complessivamente emergenti nel giudizio.

Il ricorso proposto da P.G. ha trovato accoglimento da parte della Suprema Corte che ha rilevato come nel caso di specie la Corte d’Appello abbia trascurato l’esame di una serie di atti e deposizioni idonei a confortare sul piano probatorio le violenze subite.

La Corte di legittimità ha ribadito il consolidato principio in forza del quale: “Le reiterate violenze fisiche e morali, inflitte da un coniuge all’altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse”, quand’anche tali fenomeni si concretizzino in un singolo atto di violenza, anche successivo al manifestarsi della crisi matrimoniale. Trattasi – secondo la Suprema Corte – di condotte talmente gravi l’accertamento delle quali esonera il giudice dal dover procedere alla comparazione col comportamento della vittima, venendo in rilievo atti comparabili solo con comportamenti omogenei.

La Corte ha, inoltre, precisato che pur in assenza di specifica e circostanziata indicazione di ciascun singolo episodio di violenza, il comportamento contrario ai doveri di rispetto personale che debbono connotare la relazione tra coniugi deve ritenersi integrato quando il quadro di un rapporto improntato a violenza fisica e/o morale perpetrata da un coniuge ai danni dell’altro risulti delineato dalle risultanze istruttorie (nel caso di specie, attraverso la produzione di querele, provvedimenti del Questore, referti ospedalieri).

La separazione nell’evoluzione del sistema ordinamentale: la particolare idoneità afflittiva della violenza

Con la decisione in commento la Suprema Corte offre l’occasione per una riflessione sui presupposti e sulla portata della pronuncia di separazione, nonché sull’eventuale e correlata statuizione relativa all’addebito[1].

Come è noto, la riforma del diritto di famiglia del ’75 ha innovato profondamente l’istituto della separazione dei coniugi disancorandolo dall’accertamento della colpa e subordinandolo al presupposto dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza o del grave pregiudizio all’educazione della prole, sì come emerge dall’attuale formulazione dell’art. 151 c.c.

Il superamento della centralità della colpa[2] ha segnato il passaggio da una concezione che attribuiva alla separazione natura sanzionatoria per la violazione dei doveri coniugali e per il mancato perseguimento dell’interesse pubblico alla conservazione del vincolo matrimoniale[3], ad una concezione rimediale[4] che vede nell’istituto lo strumento per porre fine ad una convivenza divenuta ormai insopportabile.

La disciplina vigente, superando l’elencazione tassativa delle cause di separazione[5], propone una formula di carattere generale che, ponendo l’accento sugli effetti, richiama il concetto di “intollerabilità”, che evoca l’idea dell’esistenza di una soglia di sopportazione[6] il cui travalicamento compromette in maniera temporanea o definitiva la convivenza coniugale[7].

All’orientamento dottrinale che ha inteso l’intollerabilità in senso soggettivo[8], rinvenendo nel senso di sofferenza e frustrazione la condizione sufficiente a decretarla, si è contrapposta la ricostruzione che legittima la richiesta della separazione in presenza di elementi oggettivamente valutabili[9] che hanno determinato il venir meno dell’affectio coniugalis.

Invero, un’interpretazione ancorata a parametri strettamente oggettivi, indirizzata ad accertare la fondatezza delle ragioni su cui si poggia la richiesta della separazione, finirebbe per sacrificare i valori di cui ciascun coniuge è portatore[10].

In giurisprudenza è ormai prevalente un’interpretazione soggettiva della clausola della intollerabilità in forza della quale il vincolo matrimoniale è incentrato sul consenso, fatto che assume rilevanza sia al momento della costituzione del rapporto sia ai fini della sua sopravvivenza[11]; sicché è causa della impossibilità di prosecuzione del ménage la condizione soggettiva di disaffezione e distacco spirituale[12], anche di uno solo dei coniugi[13], la cui verifica presuppone pur sempre l’esteriorizzazione del fatto di sentimento ovvero una sua concreta riscontrabilità in senso oggettivo[14].

Tale ricostruzione è stata accolta anche dalla dottrina, secondo la quale “il carattere soggettivo o oggettivo dell’intollerabilità non sono tra di loro alternativi, ma debbono essere considerati congiuntamente, sicché il giudizio deve fondarsi su elementi soggettivi, ma oggettivamente accertabili”[15].

L’idea di fondo, in linea con i principi di cui agli artt. 2 e 29 Cost., – che attraverso una lettura combinata attribuiscono al coniuge il diritto di chiedere la separazione quando sia divenuto impossibile svolgere adeguatamente la propria personalità nel contesto coniugale[16] – è che occorra conferire rilievo ad ogni situazione di contrasto tra i coniugi o, comunque, ad un disagio personale[17]. Questa chiave di lettura permette di meglio cogliere il modo di vivere il singolo rapporto matrimoniale, con la conseguenza che nella valutazione dell’interesse di ciascun coniuge si deve tenere conto del maturato convincimento soggettivo che l’affectio sia venuta meno sì da determinare l’impossibilità di proseguire la convivenza.

La funzione rimediale attribuita alla separazione e il ricorso alla clausola generale della intollerabilità consentono, pertanto, all’interprete di accertare il venir meno della comunione spirituale e materiale dei coniugi a prescindere da una eventuale violazione dei doveri coniugali che, tutt’al più, potrebbe assumere rilevanza nel giudizio di addebito.

Occorre, però, segnalare che una rigida applicazione della tesi soggettivistica, che àncora la pronuncia di separazione ad una mera dichiarazione unilaterale del coniuge indipendentemente dalla presenza di veri e propri fattori oggettivi e concreti, potrebbe imprimere una torsione eccessivamente individualistica all’esercizio del diritto di separarsi[18], relegando il ruolo del giudice ad una mera presa d’atto della maturata determinazione[19].

In tale quadro la violenza acquista tuttavia una peculiare rilevanza in quanto, come la pronuncia in commento ribadisce, essa, da intendersi nella duplice declinazione di fisica e morale, costituisce una violazione grave ed inaccettabile quand’anche si concreti in un unico episodio, ed integra una infrazione talmente grave dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sola, la pronuncia di separazione personale, in quanto causa determinante la intollerabilità della convivenza.

Come altresì evidenziato dalla Suprema Corte, la particolare idoneità afflittiva della violenza esonera il giudice del merito dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei; risulta così del tutto ininfluente l’eventuale comportamento dell’altro coniuge, pur precedentemente assunto, anch’esso non conforme ai doveri coniugali o addirittura provocatorio[20].

Al fine poi di evidenziare ulteriormente la particolare idoneità della violenza a determinare l’intollerabilità della convivenza, la pronuncia in commento, come si è accennato, precisa che, indipendentemente dalla consistenza o entità di singoli atti di violenza, la intervenuta intollerabilità si evince, ex se, da un quadro complessivo di relazione impostata sulla prevaricazione violenta di un coniuge sull’altro.

L’addebito della separazione tra violazione dei doveri coniugali e crisi del rapporto matrimoniale

I fatti e i comportamenti imputabili ad uno dei coniugi assumono invece un ruolo centrale nel giudizio di addebito[21]. In una sede siffatta rilevano sia le violazioni delle norme del c.d. regime primario ex artt. 143, 144 e 147 c.c., sia la vulnerazione delle situazioni giuridiche di natura esistenziale garantite dall’art. 2 Cost. e dalle fonti sovranazionali.

La formulazione del secondo comma dell’art. 151 c.c., ai sensi del quale “il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”, sembra riservare all’addebito una funzione sanzionatoria[22], stante la rilevanza del “giudizio sulla colpa del coniuge”[23].

Ponendo, invece, attenzione al pregiudizio subìto dal coniuge a seguito del comportamento posto in essere dall’altro, può ragionevolmente ritenersi che l’addebito abbia una finalità anche riparatoria, assolvendo in questa direzione alla funzione di tutelare il coniuge danneggiato piuttosto che punire l’autore della condotta illecita[24]. Tale approccio interpretativo consente di evitare che, anche successivamente all’intervenuta separazione, colui “che ha patito una convivenza non solo fallita, ma travagliata da una condotta dell’altro contraria agli impegni assunti con il matrimonio”, rimanga legato “a quest’ultimo da obblighi di assistenza e vincoli di carattere ereditario”[25].

La dichiarazione di addebitabilità non può fondarsi solo sulla prova dei comportamenti contrari ai doveri coniugali, come specificatamente indicati nella elencazione, non tassativa[26], contenuta nell’art. 143 c.c., essendo, piuttosto, necessario accertare che questi abbiano avuto un’efficacia causale nella determinazione della crisi matrimoniale[27]. Secondo la giurisprudenza[28], infatti, l’addebito può essere riconosciuto ove sussista un nesso causale tra la condotta antidoverosa e la crisi dell’unione coniugale, nel senso che la intollerabilità della convivenza deve essere ricollegabile esclusivamente al comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi “colpevoli”[29].

Salva casaStop procedura esecutiva

Tale pronuncia è, dunque, solo eventuale[30] ed accessoria e, comunque, subordinata all’espressa richiesta da parte del coniuge sul quale grava l’onere probatorio – tutt’altro che agevole da assolvere – di dimostrare fatti o comportamenti che si verificano all’interno della vita domestica[31].

In questa logica, l’addebito conserva il suo carattere accidentale[32], così come inteso dalla riforma del ’75, in quanto non opera automaticamente in presenza della violazione dei doveri coniugali, essendo imprescindibile che essa si ponga quale causa efficiente della sopravvenuta intollerabilità della convivenza.

Invero, secondo un formante giurisprudenziale sussisterebbe, in talune ipotesi, una presunzione relativa di efficienza causale tra la condotta antidoverosa e l’evento dissolutivo, superabile solo se l’autore del comportamento dimostri la mancanza del nesso eziologico tra violazione e crisi coniugale[33]; nondimeno sussisterebbe addirittura una presunzione di carattere assoluto ove il fatto antidoveroso si sostanzi in un comportamento violento tale da determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona.

Ebbene la prospettiva ermeneutica testé evidenziata permette di focalizzare il prosieguo del percorso argomentativo su uno dei passaggi più significativi della sentenza in analisi, relativo alla sussistenza di condotte violente fisiche e/o morali, al quadro di relazione di coppia delineato dalle risultanze istruttorie ed alla loro incidenza sulla pronuncia dell’addebito.

Il nesso tra agire violento e crisi matrimoniale nel giudizio di addebitabilità

La Corte, con la pronuncia in commento, si pone in linea con l’enforcement legislativo sulla prevenzione e la lotta alle violenze intrafamiliari, anche alla luce dei principi affermati dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, sottoscritta dall’Italia il 27 settembre 2011 e ratificata con L. n. 77/2013.

Invero, occorre ricordare che da tempo il legislatore e soprattutto la giurisprudenza hanno agito nell’ottica di tutelare il coniuge vittima di violenze o maltrattamenti in famiglia. Indicative in tal senso sono le disposizioni in tema di ordini di protezione, siccome recentemente novellate dalla Riforma Cartabia[34], teleologicamente orientate alla tutela della persona debole (vittima) all’interno della famiglia, finanche con l’allontanamento del soggetto che ha tenuto una condotta pregiudizievole[35]. La soglia di tutela copre sia il pericolo di pregiudizio sia la possibilità del reiterarsi del pregiudizio ove già in atto[36].

La pressante esigenza di tutela dei soggetti deboli e vulnerabili coinvolti nelle dinamiche familiari è stata attenzionata dalla Suprema Corte anche in questa decisione, laddove si è occupata dell’incidenza delle condotte violente sulla pronuncia di addebito.

A riguardo, i giudici hanno da tempo espresso il principio secondo cui reiterate violenze fisiche e morali inflitte da un coniuge all’altro, a differenza delle altre cause di addebito, sarebbero idonee a fondare, per la loro estrema gravità, non solo la pronuncia di separazione personale, stante l’intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione di addebito nei confronti del soggetto violento; in questa logica la vittima della violenza sarebbe esonerata dal fornire la prova della efficacia causale della condotta per la genesi dell’intollerabilità della convivenza[37].

Si è al cospetto di violazioni dei doveri coniugali che, come la giurisprudenza[38] aveva già avuto modo di precisare, si traducono nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale, oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner. In tali ipotesi, il giudice del merito deve ritenersi esonerato dal comparare il comportamento dei coniugi e, quindi, dall’accertare eventuali violazioni dei doveri coniugali da parte del coniuge vittima di violenza o comunque dall’indagare la causa scatenante i comportamenti aggressivi.

Tali condotte, infatti, – come lucidamente indicato dalla sentenza in commento – non possono trovare giustificazioni nel costituire, se del caso, ritorsione o reazione al comportamento dell’altro coniuge, né fondare l’esclusione dell’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei[39].

Sul punto i giudici di legittimità, nonostante la preesistente conflittualità esistente e i comportamenti esasperanti e istigatori di un coniuge, hanno ritenuto le condotte reattive dell’altro, che sfociavano in azioni violente e lesive dell’incolumità fisica, causa determinante l’intollerabilità della convivenza[40].

Anche la giurisprudenza di merito, nonostante in qualche isolata pronuncia sia incline a pretendere la prova del nesso causale in presenza di condotte violente[41], conferma che la gravità di tali fenomeni, unitamente alla circostanza che essi si consumino tra le mura domestiche, precipuamente in assenza di testimoni, consentono di pronunciare l’addebito anche in assenza di prova diretta[42].

Occorre segnalare, come ulteriormente rilevato nella pronuncia in analisi, che il maltrattamento può essere causa di addebito della separazione anche se episodico e non continuativo. Secondo i giudici sarebbe sufficiente un unico episodio di violenza, trattandosi di comportamento idoneo, comunque, a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona[43].

La Suprema Corte, peraltro, ribadisce[44] un argomento particolarmente significativo nei rapporti tra violenza e pronunziabilità dell’addebito (specie dall’angolo prospettico del nesso eziologico) laddove ritiene persino irrilevante la posteriorità temporale dell’agire violento rispetto al manifestarsi della crisi matrimoniale.

Nel solco dell’orientamento consolidatosi la Suprema Corte ha tuttavia occasione di aggiungere un tassello significativo atto ad evidenziare ulteriormente il particolare rilievo assunto dalla violenza quale causa di addebito della separazione. Ella ha infatti modo di precisare che l’onere probatorio gravante sul coniuge richiedente l’addebito non investe ogni singolo atto di violenza e non ha ad oggetto le peculiari modalità di esercizio, in quanto esso deve ritenersi assolto e pienamente esaustivo quando le risultanze istruttorie siano idonee a delineare un quadro familiare articolato intorno ad una relazione improntata a violenza perpetrata da uno dei coniugi ai danni degli altri componenti il nucleo familiare.

Proprio in base a tale determinazione il Supremo Collegio scardina le pronunce dei primi due gradi di giudizio nei quali l’istanza di addebito non veniva accolta proprio perché le prove articolate (referti ospedalieri, provvedimenti del Questore e querele), invero da sole idonee a delineare con certezza un quadro generale di una relazione caratterizzata da violenta prevaricazione di un coniuge sull’altro (e sulla prole), venivano ritenute insufficienti in quanto non investivano dettagliatamente i singoli e specifici episodi di violenza allegati.

Tale decisum si colloca in ogni caso all’interno di un quadro di pronunce che, pur considerando i comportamenti del coniuge successivi alla separazione come privi di efficacia causale nella determinazione dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, tuttavia, li reputa quali elementi quantunque rilevanti nella valutazione delle condotte pregresse ai fini del giudizio di addebitabilità, da considerarsi sindacato di tutte le condotte tenute nell’arco dell’intera vita matrimoniale[45].

Considerazioni conclusive

La sentenza annotata ha il pregio, se osservata nella prospettiva del complesso quadro dei rapporti coniugali, di censurare, con indole per certi versi dogmatica, l’agire violento di un coniuge da considerarsi alla luce del complessivo svolgersi della relazione affettivo-familiare, ritenendolo intollerabile e mai giustificabile.

La pronuncia è significativa perché sembra imprimere una nuova trazione sanzionatoria all’elemento dell’addebitabilità. In quest’ottica, infatti, la condotta (violenza fisica e morale) e l’entità del pregiudizio (lesione, nella specie, all’integrità psico-fisica) determinano l’intollerabilità della convivenza e giustificano in re ipsa l’addebito della separazione.

Sul punto, infatti, lucidamente, la Suprema Corte – come già precedentemente osservato[46] – ha così statuito: “Le violenze fisiche costituiscono violazioni talmente gravi ed inaccettabili dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole – quand’anche concretantisi in un unico episodio di percosse -, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti l’intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore, e da esonerare il giudice del merito dal dovere di comparare con esse, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, restando altresì irrilevante la posteriorità temporale delle violenze rispetto al manifestarsi della crisi coniugale”. Ed ha altresì precisato che ove dalle risultanze istruttorie risulti delineato il quadro di una relazione improntata a violenza fisica e/o morale perpetrata da un coniuge ai danni dell’altro, l’eventuale mancanza di indicazione specifica e circostanziata di ciascun singolo episodio di violenza non osta alla pronuncia di separazione personale e di addebito della stessa al coniuge autore del comportamento illecito.

La circostanza che la Corte non abbia ritenuto rilevante la posteriorità delle violenze rispetto all’insorgenza della crisi coniugale testimonia una politica del diritto di incisivo contrasto alle violenze nelle relazioni familiari.

I suddetti comportamenti, connotati da intrinseca gravità, giustificano, secondo i giudici, una rimeditazione sul profilo del nesso eziologico, il cui accertamento continua ad essere richiesto per tutte le altre violazioni dei doveri coniugali.

Sembrerebbe, dunque, che le vessazioni fisiche e psicologiche, fra tutte le violazioni dei doveri coniugali, costituiscano la violazione per eccellenza.

In questa prospettiva l’addebito parrebbe esplicare, se si guarda alla sfera giuridica del coniuge vittima delle violenze, una funzione rimediale; se, invece, muta l’angolo di osservazione inclinandolo sulla sfera giuridica del coniuge autore della violenza, sembrerebbe esplicare una funzione deterrente-sanzionatoria.

Occorre, inoltre, segnalare che il legislatore, consapevole che la violenza domestica non si contrasta solo con le norme penali e ribadendo il necessario coordinamento tra autorità giudiziarie[47], è intervenuto nei procedimenti civili e minorili con specifiche disposizioni[48] per intercettare e contrastare immediatamente e direttamente gli abusi e la violenza, anche a prescindere dalla loro riconducibilità a specifiche fattispecie di reato, tenuto conto che tali condotte potrebbero rilevare in sede di affidamento dei minori o di addebito della separazione.

A ciò si aggiunga che nel nuovo processo di famiglia viene attuato il divieto di “consensualizzare” la violenza previsto dall’art. 31 della Convenzione di Instanbul[49]; la riforma, infatti, dispone che, qualora due coniugi si separino e nel procedimento si alleghino fatti di violenza o di abuso, il giudice debba astenersi dal procedere al tentativo di conciliazione e dall’invito a rivolgersi ad un mediatore familiare; l’eventuale percorso di mediazione familiare intrapreso viene immediatamente interrotto[50].

La riforma Cartabia ha, dunque, inaugurato un nuovo capitolo nella lotta alle violenze intrafamiliari, i cui riflessi interessano il giurista anche dall’angolo di osservazione della violazione dei doveri coniugali.


[1] Come meglio si argomenterà nel par. 3.

[2] Sul sistema previgente si rinvia ad illuminata dottrina (A. Falzea, La separazione personale, Milano, 1943, 156 ss.) che, già prima della riforma, aveva contestato la concezione sanzionatoria ritenendo che dovesse essere attribuita preminenza al criterio della impossibilità della convivenza, senza che fosse necessaria la ricorrenza degli estremi della colpa. A fondamento della proposta chiave di lettura, il Maestro osservava che alcune delle cause di separazione espressamente previste non dipendevano da una colpa del coniuge, sicché la separazione era ammissibile quando il legame coniugale non poteva più proseguire per fatti non tipizzati a priori (152).

[3] M. Bianca, Angelo Falzea e il diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2017, 4, 1069; P. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Trattato Rescigno, 3, Torino, 1982, 132 ss.

[4] M. Dogliotti, Separazione e divorzio. Il dato normativo. I problemi interpretativi, in Il diritto attuale, Torino, 1995, 33.

[5] M. Mantovani, Separazione personale dei coniugi (disciplina sostanziale), in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1992, 4 ss.

[6] Secondo parte della dottrina non viene in rilievo un concetto astratto di mera tollerabilità, ma, piuttosto, bisogna valutare “il modello di vita prefigurato dai coniugi” (M. Fortino, Diritto di famiglia. I valori, i principi, le regole, Milano, 1997, 289) espressione della “storia del rapporto” (P. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 3, Persone e famiglia, II, Torino, 1996, 158).

[7] Coerentemente al fatto che lo spirito di comprensione e tolleranza è parte del dovere di reciproca assistenza a cui i coniugi sono tenuti per legge, l’art. 151 c.c. non può legittimare la conclusione che ogni forma di fastidio, malessere o malumore nei confronti del partner conduca ad un provvedimento di separazione giudiziale. I coniugi sono, infatti, tenuti a sopportare quelle condotte minimamente lesive che, non incidendo in modo significativo sull’impegno matrimoniale a causa della loro scarsa gravità, devono necessariamente trovare composizione all’interno della famiglia: A. Musio, Il principio di tolleranza nel diritto civile, in Contr. e impr., 1° aprile 2017, n. 2, 403 ss.

[8] R. Tommasini, Rapporti personali e governo della famiglia nei regimi di separazione e di divorzio, in Tratt. Bessone, Il diritto di famiglia, IV, 1, Torino, 1999, 149; L. Lenti, Diritto della famiglia, Milano, 2021, 690 e Id., La separazione giudiziale, in Ferrando-Lenti (a cura di), la separazione personale dei coniugi, Milano, 2011, 76 ss.

[9] C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1. la famiglia, Milano, 2017, 179. E già M. Dogliotti, La separazione personale, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, Torino, 2017, 517.

[10] T. Auletta, Diritto di famiglia, Torino, 2018, 185. In giurisprudenza, cfr. Cass. Civ. 9 ottobre 2007, n. 21099, secondo la quale “La formula adottata nel nuovo testo si è prestata a un’interpretazione di natura strettamente oggettivistica, che fonda il diritto alla separazione sull’accertamento di fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendano intollerabile il proseguimento della convivenza coniugale. Ma si presta anche a un’interpretazione aperta a valorizzare elementi di carattere soggettivo, costituendo la ‘intollerabilità’ un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi”.

[11] Cass. Civ. 5 agosto 2020, n. 16698 e già Cass. Civ. 21 gennaio 2014, n. 1164, con nota di F. Tommaseo, La separazione giudiziale: basta volerla per ottenerla, in questa Rivista, 2015, 38 ss.

[12] Si tratta di fatti psicologici squisitamente individuali, sicché l’intollerabilità è un fatto personale di chi la viva, “solo lui avverte nell’intimo la forza e la gravità”: U. Breccia, Separazione personale dei coniugi, in Dig. civ., XVIII, Torino, 1998, 383.

[13] Cass. Civ. 5 febbraio 2019, n. 26084, secondo la quale “la separazione dei coniugi deve trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa come fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno della vita dei coniugi, purché oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile; a tal fine non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza e che sia verificabile in base ai fatti obiettivi emersi”. E già Cass. Civ. 14 marzo 2018, n. 6145 e Cass. Civ. 29 aprile 2015, n. 8713.

[14] Potrebbe rilevare in tal senso, oltre al quadro delle allegazioni emergenti in sede di ricorso, il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione, v. Cass. Civ. 9 ottobre 2007, n. 21099.

[15] C. Parrinello, Separazione giudiziale, Art. 151 c.c., in Gabrielli – Di Rosa (a cura di), Commentario del codice civile, Della Famiglia, Milano, 2018, 747.

[16] P. Perlingieri, Questioni sul diritto di famiglia, Napoli, 1976, 125.

[17] Parte della dottrina ha osservato che non può essere imposta al coniuge la convivenza neanche in presenza di motivi futili: (T. Auletta, Diritto di famiglia, cit., 185), tenuto conto che “l’incoercibile volontà umana comporta che non c’è legge che possa costringere alla convivenza chi convivere non vuole” (V. Carbone, La mutata funzione della separazione personale, in questa Rivista, 1994, 272).

[18] Secondo Cass. Civ. 8 maggio 2003, n. 6970 “la separazione dei coniugi deve trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, che non può essere implicita nella volontà di un coniuge di separarsi”.

Stop pignoramento
Tutela patrimoniale

[19] Alcuni autori osservano che si giunge ad una separazione “a discrezione” del coniuge: M. Mantovani, Separazione personale dei coniugi, I, Disciplina sostanziale, in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1992, 6.

[20] Cfr., Cass. Civ. 21 marzo 2018, n. 6997.

[21] L’addebito, dunque, riafferma il principio della giuridicità degli obblighi nascenti dal matrimonio: G. Cian, Scioglimento del matrimonio e separazione personale dei coniugi, in Comm. dir. it. fam., (a cura di) G. Cian – G. Oppo – A. Trabucchi, Padova, 1992, I, 1, 42.

[22] A. De Cupis, Postilla sul nuovo diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 1975, I, 310; P. Grassi, La separazione personale dei coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1975, 57.

[23] C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1. la famiglia, cit., 191; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, Milano, 2020, 226. E già M. Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 295, secondo il quale la pronuncia di addebito conserva funzione sanzionatoria.

[24] C. Parrinello, Separazione giudiziale, Art. 151 c.c., cit., 779, L. Rossi Carleo, La separazione e il divorzio, in AA.VV., Diritto di famiglia, Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, IV, I, Torino, 1999, 197, F. Morozzo Della Rocca, Separazione personale (dir. priv.), in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, 1385 ss.

[25] In questo senso: P. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, cit., 169 ss.

[26] M.S. Esposito, L’addebito della separazione tra violazione dei doveri coniugali ed esercizio di libertà fondamentali, in questa Rivista, 2015, 8-9, 792.

[27] Al Mureden, La separazione personale dei coniugi, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Schlesinger, Milano, 2015, 66 ss.

[28] In tal senso Trib. Alessandria 20 gennaio 2022, che richiama precedenti di legittimità, ex multis, Cass. Civ. 17 luglio 1999, n. 7566; Cass. Civ. 14 ottobre 2010, n. 21245; Cass. Civ. 17 dicembre 2010, n. 25560; Cass. Civ. 1° giugno 2012, n. 8862.

[29] Consegue che qualora la condotta sia stata posta in essere quando il rapporto coniugale risultava già gravemente compromesso e segnato irrimediabilmente da una profonda crisi, l’addebito deve essere revocato, precisandosi che il precario stato psicologico del coniuge è sufficiente a provare l’esistenza di una crisi matrimoniale antecedente al tradimento dallo stesso perpetrato: Cass. Civ. 6 aprile 2022, n. 11130, con nota di A. Ievolella, Niente addebito della separazione alla moglie fedifraga che però era in crisi psicologica per il forte conflitto col marito, in D&G, 67, 2022, 5.

[30] Cfr. sul punto F. Tommaseo, Art. 706, in Comm. Cian-Oppo-Trabucchi, VI, I, Padova, 1993, 571 ss.; T. Montecchiari, La separazione con addebito, in Il diritto privato nella giurisprudenza, diretto da Cendon, Torino, 2000, 88.

[31] Rispetto ai quali la prova della violazione e del nesso causale potrebbe risultare ardua.

[32] Sul punto cfr. F. Scia, Onere della prova del nesso causale tra violazione del dovere di fedeltà coniugale e intollerabilità della prosecuzione della convivenza, in Nuova giur. civ. comm., 11, 2016.

[33] Particolarmente copiosa è la giurisprudenza in relazione alla violazione dell’obbligo di fedeltà. Sul punto si rinvia, ex multis, a Cass. Civ. 25 maggio 2016, n. 10823, con nota di F. Scia, Onere della prova del nesso causale tra violazione del dovere di fedeltà coniugale e intollerabilità della prosecuzione della convivenza, cit. e con nota di G. Iorio, Violazione dell’obbligo di fedeltà e addebito: il riparto, tra i coniugi, dell’onere probatorio, in questa Rivista, 2016, 11. E già, Cass. Civ. 14 agosto 1997, n. 7630; Cass. Civ. 7 dicembre 2007, n. 25618; Cass. Civ. 14 febbraio 2012, n. 2059 e Cass. Civ. 23 maggio 2014, n. 11516.

[34] G. Foti, L’evoluzione della disciplina italiana sugli ordini di protezione contro le violenze e family metamorphosis. Dinamiche processuali e risvolti sostanziali, in Actualidad Jurídica Iberoamericana, 2022, 17 bis e Id., Gli ordini di protezione tra sostanza e processo. La violenza familiare nella Riforma Cartabia: il disvelamento della fattispecie, in Giust. civ., 2022, 3, 585 ss.

[35] Parte della giurisprudenza di merito ritiene che gli ordini di protezione possano essere pronunciati soltanto in presenza di reiterate condotte pregiudizievoli (Trib. Salerno, Sez. I, 20 maggio 2009) e che un isolato atto di violenza non assumerebbe rilievo (Trib. Barletta 1° aprile 2008); altra parte della giurisprudenza ritiene che gli ordini di protezione possano essere adottati anche nel caso di singolo e isolato episodio di violenza (Trib. Reggio Emilia 10 maggio 2007; Trib. Palermo 4 giugno 2001).

[36] Secondo le corti minori, gli ordini di protezione hanno il fine precipuo di difendere la vittima, attuando delle condizioni materiali orientate a impedire, nei limiti del possibile, che tali condotte vengano continuate, o ripetute. La finalità dell’ordine di protezione è quindi la prevenzione del pregiudizio, essendo diretto a evitare l’aggravamento del danno se già in atto, o a evitarne l’insorgenza se ancora non si sia prodotto: Trib. S. Angelo Lombardi 2 novembre 2011.

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[37] Cass. Civ. 22 settembre 2022, n. 27766 e già Cass. Civ. 19 febbraio 2018, n. 3925 e Cass. Civ. 22 marzo 2017, n. 7388.

[38] Cass. Civ. 7 aprile 2005, n. 7321; Cass. Civ. 14 aprile 2011, n. 8548. Si pone in linea anche la giurisprudenza di merito più recente: Trib. Terni 24 febbraio 2023, n. 134, in DeJure.

[39] V. 17.1. della sentenza. Il principio è stato confermato anche dalle corti minori: Trib. Torre Annunziata 24 febbraio 2023, n. 557 e Trib. Trieste 16 gennaio 2023, n. 28, tutte in DeJure.

[40] Cass. Civ. 21 marzo 2018, n. 6997.

[41] V. Trib. Ravenna 4 maggio 2021, che, disattendendo i principi sopra espressi, non ha accolto la domanda di addebito in presenza di condotte violente e vessatorie attuate da un coniuge ai danni dell’altro, stante la mancata prova che detti episodi maltrattanti e violenti siano stati la causa della crisi del matrimonio e non già l’effetto di una crisi già in atto.

[42] Trib. Bari 10 febbraio 2022, n. 527.

[43] Cass. Civ. 14 gennaio 2016, n. 433. Principio successivamente confermato, ex multis, da Trib. La Spezia 25 marzo 2021, n. 179 e da Cass. Civ. 22 settembre 2022, n. 27766.

[44] Principio già espresso da Cass. Civ. 22 marzo 2017, n. 7388.

[45] Cass. Civ. 2 settembre 2005, n. 17710. Cfr. in ogni caso, a titolo indicativo, Cass. Civ. 28 maggio 2008, n. 14042 e Cass. Civ. 14 gennaio 2011, n. 817.

[46] V. retro parr. precedenti.

[47] Già la L. n. 69/2019, nota come Codice Rosso, ha previsto un efficientamento processuale finalizzato all’adozione tempestiva di tutela delle vittime, inserendo nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale l’art. 64-bis, ai sensi del quale in pendenza di procedimenti di separazione dei coniugi o di cause relative all’affidamento dei minori o alla responsabilità genitoriale, il giudice penale deve trasmettere obbligatoriamente senza ritardo al giudice civile copia dei provvedimenti adottati nell’ambito del procedimento penale aperto per il delitto di violenza domestica o di genere.

[48] Gli artt. 473-bis.40 ss. c.p.c. disciplinano il procedimento in cui siano allegati abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere poste in essere da una parte nei confronti dell’altra o di figli minori, prevedendo modalità di coordinamento con altre autorità giudiziarie, anche inquirenti. È disposta l’abbreviazione dei termini processuali (art. 473.bis.42, comma 1, c.p.c.); al fine di arginare il fenomeno della vittimizzazione secondaria non è necessaria la comparizione personale alla udienza fermo restando che in caso di comparizione personale, il giudice si astiene “dal procedere al tentativo di conciliazione” (art. 473-bis.42, comma 6, c.p.c.).

[49] Nella Convenzione di Istanbul si prevede, infatti, che: “le parti devono adottare le necessarie misure legislative o di altro tipo per vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”. Nella stessa direzione si sono mosse già nel 2010 le Nazioni Unite raccomandando che “la legislazione vieti esplicitamente ogni mediazione nei casi di violenza contro le donne, prima o durante la procedura giudiziaria”.

[50] Se tale scelta legislativa potrebbe risultare difficilmente comprensibile e giustificabile nelle ipotesi in cui le condotte non presentino livelli di gravità troppo elevati e/o i servizi sociali del territorio non appaiano adeguatamente efficienti (V. De Cristofaro, Le modificazioni apportate al codice civile dal decreto legislativo attuativo della “Legge Cartabia” (D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. Profili problematici delle novità introdotte nella disciplina delle relazioni familiari, in Nuove leggi civ., 2022, 6, 1460), appare, invece, pienamente rispettosa dei diritti umani delle donne in tutte le ipotesi di violenza domestica laddove il ricorso alla mediazione familiare risulterebbe pregiudizievole nonché fallimentare.

Tratto da Famiglia e Diritto n. 8-9/2023



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