Pensioni, la platea di interessati
Mentre le attenzioni per il 2024 sono concentrate su chi è vicino alla pensione con la ricerca di risorse utili per poter prorogare Quota 103 e Opzione Donna, c’è un silenzioso gruppo di oltre 10 milioni di cittadini che probabilmente osserva con un certo distacco il dibattito. E che invece sarebbe utile aiutare a interessarsi per tempo della questione. Si tratta di coloro che hanno oggi tra i 25 e i 40 anni: 10.271.680 giovani donne e uomini che, legislazione attuale alla mano, potrebbero andare in pensione tra i 65 anni e 2 mesi e i 77 anni e 3 mesi, con un’incertezza sulla data di pensionamento che può superare la decina di anni. Il motivo della variabilità va ricercato in due aspetti della normativa. Il primo risale al 2011, quando la Riforma Monti-Fornero cercò di offrire flessibilità in uscita a coloro che avevano iniziato a lavorare a partire dal 1996. Si decise che, in presenza di un assegno pensionistico sufficientemente elevato (circa 1.200 euro netti), si sarebbe potuto anticipare la pensione di tre anni rispetto al normale requisito di vecchiaia di 67 anni grazie alla «pensione anticipata contributiva» (64 anni di età). Al contrario, per chi avesse avuto carriere brevi e discontinue, con bassi redditi e una pensione inferiore a circa 670 euro netti, l’asticella si sarebbe alzata di quattro anni, con la «pensione di vecchiaia contributiva» al compimento dei 71 anni. Una variabilità di sette anni legata ai contributi versati, allo stipendio e al tipo di carriera.
Come andare in pensione, la guidaAndrea Carbone
Le riforme, da quella Sacconi del 2009
La seconda componente è invece precedente, quando con la Riforma Sacconi del 2009 si decise che i requisiti pensionistici andavano legati all’incremento dell’attesa di vita per migliorare gli equilibri di spesa: più si vive a lungo, più tardi si va in pensione. A seconda che la speranza di vita cresca «poco» (un mese ogni due anni nello scenario più prudenziale dell’Istat) oppure «molto» (per un massimo di tre mesi ogni due anni), aumentano di conseguenza anche i requisiti. Quando si sente lanciare l’allarme sulla possibilità che i giovani potranno andare in pensione a 75 anni e oltre, si stanno ipotizzando un’elevata crescita dell’attesa di vita e lavoratori con carriere discontinue e pochi contributi versati, tali da generare una pensione inferiore a circa 670 euro netti (requisito di vecchiaia contributiva). Ecco perché nelle simulazioni l’età di pensionamento per un 25enne è stimata tra 66 anni e 1 mese (bassa crescita dell’attesa di vita e requisito di pensione anticipata contributiva) e appunto 77 anni e 3 mesi. Si tratta di una forchetta che oggettivamente può scoraggiare e demotivare i più giovani a prendere in mano il proprio futuro pensionistico. Oltre a fare educazione previdenziale, sarebbe utile ragionare di riforme «a costo zero nell’immediato» che rendano più libera l’età di pensionamento per coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1996 in poi e sono nel sistema di calcolo contributivo, ispirandosi ad esempio allo spirito della Riforma Dini del 1995 che lasciava scegliere il momento dell’interruzione lavorativa tra i 57 e i 65 anni. Il costo complessivo per la collettività sarebbe sostanzialmente identico: tanti contributi sono stati versati, tanti verrebbero restituiti a vita media attraverso la pensione. Più si è giovani, minore sarà infatti la pensione, perché verrà erogata per un maggior numero di anni.
I calcoli da fare
Nell’attesa di possibili riforme e nonostante le incertezze sull’età di pensionamento, è però opportuno e necessario pianificare, sfruttando il tempo a disposizione. Tra le certezze c’è quella del valore dell’assegno pensionistico che, rapportato al reddito, potrebbe oscillare nei casi simulati tra il 48% di un 25enne autonomo e il 73% di un 40enne dipendente. Valori difficilmente sufficienti per poter vivere con serenità gli anni della vecchiaia. Ecco perché sono stati simulati i versamenti mensili in previdenza integrativa necessari per creare una pensione di scorta di 400 euro netti al mese. Per un 40enne che investisse in una linea a basso rischio ci vorrebbero 372 euro al mese, mentre per un 25enne in una linea ad alto rischio sarebbero sufficienti 92 euro al mese. Cifre non alla portata di tutti i giovani, ma che almeno i lavoratori dipendenti, grazie al Tfr, possono più agevolmente raggiungere e superare. Ricordiamo infine che, a causa del calo dell’attesa di vita registrato durante la pandemia, i requisiti pensionistici resteranno uguali almeno fino al 2026 e potranno tornare a crescere solamente a partire dal 2027. Sempre che, nel frattempo, l’attuale sistema di requisiti per i più giovani non venga semplificato e reso più flessibile.
Quota 103: le combinazioni per i sessantenni
Di tutte le possibili iniziative di riforma per il 2024, il rinnovo di Quota 103 sembra il più probabile e quello con i costi più accettabili. Il motivo di questa «convenienza» risiede nella relativamente limitata platea dei potenziali aventi diritto. Innanzitutto perché i 41 anni di contribuzione minimi richiesti non sono pochi e risultano raggiungibili prevalentemente da lavoratori dipendenti con carriere stabili e continue nel tempo. Il secondo motivo risiede nella temporaneità dell’iniziativa: la tabella esemplifica quali sarebbero le combinazioni anagrafico-contributive interessate dall’estensione al 2024. Sostanzialmente si tratterebbe di tutti coloro che l’anno prossimo compiranno 62 anni, quindi i nati e le nate del 1962, a patto però che maturino almeno 41 anni di contribuzione. Bisogna quindi aver iniziato a contribuire, con continuità, entro il 1983, in modo da poter soddisfare l’anzianità contributiva richiesta entro l’anno. Si tratta ad esempio di uomini nati nel 1962 che hanno iniziato a lavorare nel 1982 o 1983. Per coloro che invece avessero iniziato a lavorare l’anno successivo (o avessero accumulato uno o più buchi contributivi), Quota 103 non risulterebbe applicabile, con un’età di pensionamento a 64 anni e 11 mesi invece che a 62 anni come i coetanei più fortunati. Discorso analogo per le lavoratrici, con però un’ulteriore riduzione della platea a causa del più favorevole requisito di pensione anticipata (41 anni e 10 mesi rispetto ai 42 anni e 10 mesi degli uomini). Le altre combinazioni «sbloccate» da un’estensione di Quota 103 nel 2024 sarebbero quelle di lavoratori nati prima, ma che maturerebbero i 41 anni di contribuzione proprio l’anno prossimo. Nella tabella si tratta della diagonale che sale verso l’angolo in alto a destra, con anticipi sull’età di pensionamento via via sempre più ridotti al crescere dell’età. Ricordiamo che l’attuale Quota 103 non prevede penalizzazioni esplicite: l’assegno pensionistico cala solo perché si lavora per meno anni. Per i redditi più elevati è invece prevista una temporanea limitazione del valore dell’assegno pensionistico fino al raggiungimento dei 67 anni di età.
Quota 41: un guadagno inferiore ai due anni (e un po’ costoso)
Anche il destino di Quota 41 per il 2024 appare ragionevolmente certo, ma in negativo. Sembra infatti molto difficile che questa misura possa essere adottata, visto il maggiore impatto sui conti pubblici. L’Inps aveva ad esempio stimato costi tra i 4 e i 9 miliardi di euro all’anno tra il 2022 e il 2029 e le numeriche aggiornate per il 2024 non dovrebbero discostarsi di molto. Non a caso, tra le ipotesi per mitigare i costi era stata formulata quella di obbligare al ricalcolo contributivo coloro che l’avessero voluta adottare. Nelle simulazioni in tabella abbiamo ipotizzato la «versione base», che prevede il requisito di 41 anni di contribuzione senza penalizzazioni esplicite sul valore dell’assegno pensionistico. A dispetto degli elevati costi per la collettività, i benefici per i lavoratori sarebbero relativamente limitati, con un anticipo potenziale massimo sulla data di pensionamento di 10 mesi per le lavoratrici e di 1 anno e 10 mesi per i lavoratori. In funzione dell’adeguamento dei requisiti per l’aumento dell’attesa di vita dal 2027 in poi questi benefici potrebbero leggermente aumentare: nei casi simulati si arriva fino ad anticipi potenziali di 2 anni e 2 mesi, ai quali corrisponderebbe un calo «naturale» dell’assegno pensionistico dell’8%, a causa del minor numero di anni lavorati. Il motivo del relativamente basso impatto è l’esistenza del requisito di pensione anticipata, che già prevede che si possa andare in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi se uomini e 41 anni e 10 mesi se donne. L’unico caso certo di Quota 41 è quello per i lavoratori precoci (cioè quelli con almeno 12 mesi di contributi prima dei 19 anni), che già oggi possono usare questo requisito se possono far valere condizioni di care giver, disabilità superiore al 74%, disoccupazione o mansioni usuranti o gravose. Come Quota 103, anche Quota 41 è una misura rivolta prevalentemente a lavoratori che possono vantare una carriera stabile e continua, e che hanno iniziato a lavorare entro i 26 anni circa.
Opzione donna: la libertà vale un bel taglio dell’assegno
Molto più incerta è la situazione per Opzione Donna: una misura che dal 2004 ad oggi è stata prorogata di anno in anno. Un po’ a sorpresa, l’edizione 2023 di questa possibilità ha subito importanti modifiche, in particolare per quanto riguarda le limitazioni. Se in precedenza era aperta a tutte le lavoratrici, da quest’anno è diventata riservata solamente a chi è care giver, a chi ha disabilità superiore al 74% e a chi è dipendente o licenziata di aziende in crisi. Una forte riduzione della platea potenziale che ha reso Opzione Donna una possibilità per poche lavoratrici. La principale caratteristica di questo requisito è invece rimasta: l’obbligo di avere l’assegno ricalcolato integralmente con il sistema di calcolo contributivo, solitamente meno favorevole. Nelle simulazioni in tabella abbiamo evidenziato le combinazioni anagrafico-contributive coinvolte nell’ipotesi che la regola 2024 preveda un minimo di 60 anni di età e di 35 di contribuzione da maturare entro il 31 dicembre di quest’anno. Come si può notare le lavoratrici potenzialmente coinvolte sarebbero molte delle over 60. I valori nelle caselle indicano invece il tasso di sostituzione, cioè il rapporto tra pensione e reddito da lavoro. Nell’area delle lavoratrici con Opzione Donna i valori scendono spesso di dieci e più punti percentuali. Ad esempio, una lavoratrice nata nel 1962 e che avesse iniziato a lavorare a 26 anni, potrebbe attendersi una pensione pari al 57% del proprio reddito se decidesse nel 2024 di usufruire di Opzione Donna. Una sua coetanea, che avesse però iniziato a lavorare a 27 anni, sarebbe tagliata fuori dalla platea delle aventi diritto, ma «in cambio» potrebbe avere una pensione pari al 69% del reddito. Si tratta però, ad oggi, di supposizioni: solamente l’effettivo meccanismo normativo chiarirà se Opzione Donna verrà cancellata (dopo 20 anni), riproposta come nel 2023, o se oppure si ritornerà a meccanismi più aperti e simili a quelli visti fino al 2022. Quello che è certo è che, a causa della riduzione del valore dell’assegno pensionistico, si tratta di una misura interessante solo per alcune tipologie di lavoratrici.
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